Di fotografie che ritraggono Giorgia Meloni al ristorante, sul web ne troviamo a bizzeffe, incluso l’increscioso scatto carpito da Asia Argento nel 2017. Venne pubblicato dall’attrice su Instagram con un commento in inglese che, tradotto, diceva pressappoco: “La schiena lardosa della ricca e svergognata – Make Italy great again – #fascista ritratta al pascolo”. Alludeva, Asia Argento, allo slogan della campagna elettorale di Donald Trump, il famoso MAGA, Make America great again, poi ampiamente disatteso dal magnate divenuto Presidente.
E, in effetti, “Trump è un modello per il centrodestra italiano”, è una delle dichiarazioni di cui forse Meloni si è pentita, ora che i postfascisti nudi e crudi a causa delle sue simpatie bideniane la chiamano “Badoglia”. Il soprannome mi è stato riferito da un amico frequentatore di rinomate palestre di pugilato, luoghi in cui la sinistra, e pure il centro, quello di Renzi e Calenda, non riscuotono simpatie e dove da Giorgia ci si aspettava il riscatto, quale non si sa, forse consegnarci tutti a Putin, in cambio di vodka, gas e sbarbine ucraine da sottomettere.
Va da sé, che il violento post di Asia Argento venne immediatamente corredato da entusiastici commenti dei buoni, quelli di sinistra, incluso l’allora fidanzato, lo chef televisivo Anthony Bourdain: “Un pitone che ingoia un’antilope”. Peraltro, a guardare la fotografia, persino se dominati dall’acrimonia, la povera Meloni che aveva partorito da poco non sembra per nulla grassa; e comunque noi amiamo incondizionatamente i grassi e tutti quelli che si divertono a mangiare, anche famelicamente come dallo scatto si intuisce stesse facendo la neomamma. Al limite, andando a cercare il pelo nell’uovo, si poteva stigmatizzare il gomito sul tavolo a reggere la forchetta, tipo camionista stanco. Ma né Asia né Anthony avevano attitudini alla Lina Sotis (o alla Donna Letizia), e dunque tralasciarono di criticarne la postura.
È stato in quell’occasione che ho provato per la prima volta una vibrante simpatia per una postfascista, e ho continuato a provarla nonostante le strabilianti intemerate andaluse (che fanno molto Putin, Kirill e Dugin), e nonostante le dichiarazioni a “Grazia” dell’altro giorno, con tutta quella strenua difesa della famiglia tradizionale, che lei per prima non rappresenta pienamente. Una battaglia di retroguardia e perdente, tipo quelle degli anni Settanta contro il divorzio.
Ad ogni modo, gli scatti della Giorgia che si nutre in locali pubblici, e si mette in posa per la foto rituale con i ristoratori, appartengono in gran parte a ristoranti di pesce: a Roma, da Rinaldi al Quirinale (locale rimasto famoso per le cimici piazzate dai Carabinieri del Noe sotto il tavolo di una saletta riservata), all’Hostaria del Vicoletto a Terracina, fino alle ultime, ad Anzio da Romolo al Porto, avvinta ai Regolanti, Walter, Marco Tullio e Umberto, figli e nipoti del fondatore Romolo, cuochi, sommelier, gestori. Era il 20 febbraio e, debellata l’ennesima influenza, poche ore prima di raggiungere Kiev per sostenere Zelens’kyj e la causa ucraina, Badoglia aveva pensato di portare il compagno a godere del pesce di uno dei migliori ristoranti italiani e, secondo me, persino del mondo. Ma non pensate a uno stellato, con i prezzi stratosferici e i menu degustazione, con lo spiegone interminabile dei piatti, e i clienti che non sono al centro dell’attenzione ma sono spettatori paganti e plaudenti del culto santonico dello chef. Romolo al Porto, da sessant’anni piazzato nel mezzo del porto Innocenziano di Anzio, accanto alla partenza degli aliscafi, è il classico ristorantone inclusivo, una sorta di spettacolo per chi è appassionato di osservazioni antropologiche: un vero show che va in scena nei giorni di massimo affollamento, quando i Regolanti riescono a nutrire quattrocento persone tra pranzo e cena (con conto dai 40 ai 100 euro), ricorrendo a continui rifornimenti di casse di pesce appena rientrano le barche della Cooperativa pescatori. Ebbene, mentre si gustano antipasti serviti a ritmi vertiginosi – i famosi ventun piatti di crudi, altrettanti di cotti, e la stratosferica minestra di pesce di Anzio fatta con spaghetti spezzati e carne di pesci poveri -, ci si incanta a osservare il passaggio sul porto e gli altri clienti: bambini infernali che corrono tra i tavoli, lasciati liberi da esauste famiglie della piccola borghesia romana vestita a festa; presumibili camorristi campani e membri di clan sinti del litorale, tutti tatuati fino al collo, rolexati e impupazzati di loghi Gucci, Chanel, Luis Vuitton e Dior che stappano (loro però vorrebbero sciabolare) costose bottiglie di champagne, divorando scampi e gamberi; giovani e teneri fidanzati che si guardano negli occhi rifacendosi il gusto e il palato con saraghi, cocci, tracine e altri pesci selvatici, dopo tanto squallido sushi fatto di “materiale ittico” di batteria: orate, salmoni e spigole ingozzati nelle gabbie degli allevamenti a forza di antibiotici e farina di soia; comitive partenopee che raggiungono Anzio per l’immancabile menu napoletano, ossia insalata di polpo, ‘mpepata di cozze e spaghetto a vongole. E poi molti “avanzi di palestra”, perché ci deve essere una connessione dell’ipermuscoloso Walter Regolanti con ambienti di culturisti. Ci vanno giornalisti famosi (Bruno Vespa, Barbara Palombelli), personaggi televisivi e attori (Amadeus, Paolo Bonolis e Raoul Bova), stilisti (Pierpaolo Piccioli, il designer di Valentino), calciatori di ogni squadra (anche l’immancabile Francesco Totti, prima con Ilary, poi in saletta riservata con Noemi, quando ancora la storia non era ufficiale). Infine, c’è la lunga lista dei politici. Prima di citarvene alcuni, stordendovi con ulteriore name dropping, ecco però il racconto di una vecchia storia di tempi forse più faziosi dei contemporanei, perlomeno in cucina.
“Raspelli doveva parla’ male de noi e invece…”, ricorda Walter Regolanti tornando al 2000. Chiamiamo allora Edoardo Raspelli, critico gastronomico campione di querele ricevute, cattivista o forse solo strenuo difensore del proprio punto di vista, che rievoca la famosa vicenda del licenziamento da direttore della guida ai ristoranti de L’Espresso. “Stavamo lavorando alla guida del 2021, che era praticamente pronta. Avevo controllato e approvato tutte le schede. Ma arriva il direttore editoriale con l’elenco di una ventina di voti che avrei dovuto cambiare secondo indicazioni arrivate dall’alto. In particolare, l’ordine di abbassare il voto riguardava Romolo al Porto di Anzio, che il principe Caracciolo riteneva un covo di fasci, mentre lui mangiava dal cugino, un altro Regolanti, proprietario di Alceste al Buon Gusto, pure sul porto Innocenziano”. Da Alceste, Carlo Caracciolo principe di Castagneto e duca di Melito, fratello di Marella e cognato di Gianni Agnelli, presidente del gruppo editoriale L’Espresso, aveva creato un’enclave della buona e brava alta società intellettuale di sinistra, mentre da Romolo era costante la presenza di Gianfranco Fini, l’uomo della svolta di Fiuggi, e anche di militanti non altrettanto ripuliti, caratterizzati da impresentabilità di argomenti, di abbigliamenti e convinzioni.
Torniamo a Giorgia: “Già allora, Fini parlava benissimo della Meloni, che aveva nominato responsabile nazionale di Azione studentesca”, ricorda Walter. È insomma in quel periodo che la giovane politica inizia a frequentare Romolo al Porto, il covo di fascisti gourmet che Raspelli aveva valutato con votazione nettamente superiore a quella di Alceste. Finì che Raspelli si rifiutò di cambiare i voti e venne licenziato sui due piedi. Si è poi rifatto una vita di critico urticante, sulla Stampa, tra querele e recapiti di minacciose corone funeralesche, e poi forse stufo di baccagliare si è buttato sulla televisione, girando l’Italia con il carrozzone di Mela Verde: le proloco, i sindaci e gli assessori, le presentatrici, le ragazze di belle speranze, le nonnine che tirano la sfoglia di ravioli e tagliatelle, e insomma tutto quello che capita girando l’Italia con questo genere di programmi televisivi.
Quanto a Romolo, bisogna ricordare che, nonostante lo stigma sociale appioppato dal gruppo principesco al ristorante squadrista, la politica italiana che ha inventato il trasformismo – oggi lo chiameremmo fluidità – ingloba tutto e smussa princìpi e differenze. Oltre ai cosiddetti fasci, da Romolo andavano Nilde Iotti e Giulio Andreotti, ci vanno Francesco Rutelli e Paolo Gentiloni, ci andava persino Mario Draghi ai tempi della BCE (ma mangiava pure da Alceste, con paraculaggine ambidestra). Poi non s’è più fatto vedere. Nel frattempo, grazie al trasversalismo ma anche al battaglione di dipendenti (una trentina) e alla grande qualità del menu, il successo di Romolo ha surclassato ogni polemica. Proprio come Badoglia che piace al centrodestra e, a volte (quando non si sporca le mani con polemiche strumentali su famiglie omo ed etero cui, secondo me, non crede neppure lei), persino al centrosinistra.
Soprattutto, la cittadina di Anzio è diventata un immenso ristorantificio fondato sul dare pesce agli affamati. Altro che la moda del foraging (mangiare cortecce, erbe, funghi, licheni, frutti selvatici raccolti nei boschi col cestino di vimini), o l’enfasi sulla cuisine de marché dei cuochi neozelandesi, altro che le mirabilie del Noma di Copenaghen che per i costi insostenibili dovrà chiudere, altro che le meraviglie decantate da assatanati esperti di cucina: andassero ad Anzio a studiare il modello. È il secondo Pil del Lazio, più di Latina e di Civitavecchia. Meno di sessantamila abitanti per duecento ristoranti. Pur collegata da strade micidiali, la tragica Pontina, per non dire dell’infausta litoranea, nonostante i parcheggi largamente insufficienti, Anzio è ormai un polo d’attrazione come non esiste nemmeno a Ostia, che è a soli venti minuti da Roma. Si mangia dappertutto, non solo all’interno dei locali: ogni marciapiede, ogni terrazza, ogni protuberanza e settore di spiaggia è sfruttato per mettere a tavola all’aperto, per tutto l’anno, i fanatici del pesce. Niente stranezze: il fritto misto, i crudi, gli spaghetti allo scoglio, il pesce al forno. Presentato più o meno bene, con maggiore o minore qualità, con porzioni gigantesche o sobrie, alla fine è l’eterno menu del sogno italiano: chist’è o mare, chist’è o pesce. Forse avete visto il film americano “The menu”: portata a una degustazione dei piatti di un esclusivissimo ristorante stellato, la fidanzata di un fanatico gourmet insceminito dal divismo cheffistico, si spazientisce per l’assurdità del rituale messo in scena dal cuoco-guru. A un certo punto, mentre quello declama gli ingredienti e la preparazione di un piatto, lei sbotta e gli chiede un cheese burger: “Non voglio una stravagante stronzata di merda”.
I ristoratori di una volta, e gran parte di quelli di Anzio, pensano a non far debiti, o meglio a guadagnare. Significa che trattano il cliente con ossequio e rispetto, e ne conoscono i gusti, interpretandoli e assecondandoli al volo. La cucina contemporanea ha invece creato un equivoco, con il cliente che si sente in dovere di entrare nelle grazie del ristoratore, magari per strappargli “er selfie”. Un pubblico di adoranti, tipo quello di Domenica In, sempre pronto all’applauso e all’ovazione. Per giunta si chiede al cliente di apprezzare anche le scelte di arredi e design, e ti viene raccontato come sia stato scelto l’architetto, come lo chef abbia disegnato il piatto, creato il bicchiere, rivoluzionato la posata. Il cliente-comparsa deve estasiarsi e andare a casa con l’idea di aver vissuto un’esperienza irripetibile, come se avesse assistito all’interpretazione di un Sir John Gielguld redivivo, che fa Amleto in un teatro del West End. Da raccontare ai nipoti. Viene in mente un’invettiva del critico e scrittore Gianni Celati, pensata per la letteratura ma applicabile in molti campi, persino nella ristorazione: “La disgrazia della letteratura è di essere stata presa in mano violentemente dai cosiddetti esperti, i quali hanno l’idea che essa esista in generale, come fenomeno, e non come fatto vario e sempre indecidibile”.