A Bologna si chiama mortadella e non ci sono sinonimi. Ma nel resto del mondo chiedono “due etti di Bologna”. Più denominazione d’origine di così…
L’inizio della sua storia è fatto risalire all’epoca romana, o addirittura agli etruschi. In un bassorilievo del Museo Archeologico di Bologna si vede un uomo circondato da maiali e con in mano un mortaio per macinare la carne: stando all’interpretazione di questa stele del I secolo d.C,. il nome mortadella dovrebbe derivare proprio da quel mortarium, il mortaio del porcaro. Un’altra teoria attribuisce invece l’origine del nome al farcimen myrtatum, un salume particolarmente apprezzato dagli antichi romani, ottenuto macinando carne di maiale, poi cotta e insaporita da bacche di mirto. Nel Decamerone il Boccaccio cita il “mortadello”, e due secoli più tardi, nel 1557, il cuoco degli Este, Cristoforo Messisbugo, nel Libro novo nel qual si insegna a far d’ogni sorte di vivanda scrive la ricetta della “Sfogliata di Mortadella”: a quel punto era già diventata “femminile” nonché ottimo ingrediente di cucina.
La ricetta della mortadella venne codificata per la prima volta nel 1661 dal cardinale Farnese, con un bando per la sua produzione secondo cui ogni “salarolo” della città doveva conformarsi alla regola di usare solo carni di maiale, al fine di non pregiudicare la dote di cui godeva Bologna nel “fabbricar Mortadelle d’isquisita perfettione”. Evidentemente, qualche furbastro faceva finire carni meno nobili nell’impasto della mortadella. Ma fu solo a partire dall’Ottocento che le invenzioni industriali diedero impulso alla sua produzione e alla diffusione nel mondo. Proprio per questo salume un bolognese inventò l’affettatrice. Era il 5 maggio del 1873, quando il giovane meccanico Luigi Giusti presentò ai concittadini la prima affettatrice meccanica, con cui era possibile tagliare velocemente e in modo regolare ogni tipo di salume, e in particolar modo la mortadella. Venticinque anni prima del macellaio Wilhelmus Adrianus von Berkel, che aprì la sua fortunata fabbrica a Rotterdam, nel 1898.
La mortadella va affettata sottilissima in veli eterei o tagliata in pratici cubetti, ma a Bologna è ammessa anche la versione triturata per il ripieno dei tortellini. La loro ricetta ufficiale, depositata dalla Dotta Confraternita del Tortellino e dalla Delegazione di Bologna dell’Accademia Italiana della Cucina presso la Camera di Commercio della città, con apposito atto notarile stilato nel 1974, prevede: 100 grammi di lombo di maiale, 100 grammi di prosciutto crudo, 100 grammi di vera mortadella di Bologna, 150 grammi di formaggio Parmigiano-Reggiano, 1 uovo di gallina, l’odore di noce moscata.
La ricetta della mortadella codificata dal cardinale Farnese rappresentò una sorta di disciplinare di produzione dell’età barocca, sostituito ai nostri giorni da un altro più dettagliato, cui bisogna attenersi per ottenere il marchio “Mortadella Bologna IGP”, riconoscimento attribuito dall’Unione Europea nel 1998. Le veci del Cardinale Farnese tocca farle al Consorzio Mortadella Bologna, che oggi associa 31 aziende produttrici di circa il 95% di tutta la Mortadella Bologna IGP in circolazione. Per ottenere il marchio, la mortadella deve essere fatta da carni di suino con spezie (in particolare, il pepe in grani) e piante aromatiche o pistacchi. Le carni vengono triturate attraverso tre diversi passaggi in apposite macchine tritacarne. All’emulsione cremosa si aggiungono cubetti di grasso ricavati principalmente da quello di gola, il più duro e di conseguenza il più pregiato tra i grassi del suino. L’impasto così ottenuto viene insaccato in involucri naturali o sintetici nella misura voluta (non è una questione di taglie: esistono mortadelle tascabili e mortadelle di oltre 20 quintali) e sottoposto a cottura in apposite stufe ad aria secca, con tempi che vanno da poche ore a diversi giorni. Segue una docciatura con acqua fredda e una sosta in cella di raffreddamento per la stabilizzazione. Il risultato è un prodotto che deve avere l’inconfondibile colore rosa uniforme, l’aroma tipico, e un sapore delicato senza tracce di affumicatura. Nella fetta devono essere presenti, in quantità non inferiori al 15% della massa totale, le quadrettature bianco-perlacee di grasso.
Quanto al carattere, la mortadella è autoironica e non potrebbe essere diversamente: con quella forma sgraziata e il colore sfacciato, è uno dei salumi più appariscenti. Nel 1838 comparve addirittura nella letteratura americana, in Le Avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe. Il giovane gentiluomo protagonista, imbarcato su una nave diretta nei mari del sud, constata l’esiguità di scorte d’acqua e soffre la sete “perché dopo la perdita del mio montone avevo mangiato tantissima mortadella di Bologna”. Non le manca un’esperienza cinematografica da protagonista: nel 1971, in La Mortadella di Mario Monicelli, Sofia Loren, emigrante italiana a New York, viene bloccata all’inflessibile dogana USA per via della compagna di viaggio: una mortadella emiliana.
La mortadella vanta persino apparizioni in politica, premonitrice la frase di Francesco Nuti in Caruso Pascoski che la utilizza per il buon vecchio gioco degli apparentamenti ideologici: “La mortadella è buonissima, non c’è niente da fare, è proprio buona. La mortadella è comunista. Il salame è socialista. Il prosciutto è democristiano. La coppa… liberale. Le salcicce, repubblicane. Il prosciutto cotto è fascista”. Dopo questa attribuzione, non si ricordano altri salumi entrati in Senato: “Non siamo mica all’Osteria”, urlò Franco Marini il 25 gennaio 2008 quando il senatore Nino Strano, nell’aula del Senato, per festeggiare la caduta del governo Prodi tracannò spumante da una bottiglia e ingollò manciate di mortadella. Un’allegoria di bassa lega, chiara a coloro i quali usavano chiamare Romano Prodi con il nomignolo “mortadella”, per via delle origini bolognesi e della fisionomia blandamente evocativa del salume. Ma non è certo che sia stato il primo ad affibbiare questo appellativo all’allora Presidente del Consiglio; forse fu un’imitazione di Corrado Guzzanti, durante il Pippo Chennedy Show del 1997, con un Romano Prodi che accarezzava e cullava il proprio cane, un cilindro dalle sembianze di mortadella. In questa storia non mancano gli inevitabili millantatori: l’aspirante faccendiere Igor Marini, protagonista dell’indagine Telekom Serbia del 2001, attribuì a Prodi il poco fantasioso nome in codice “mortadella”. “È il soprannome che mi hanno dato e ne vado orgoglioso”, ha dichiarato Prodi. Non basta: “Da cibo proletario si è raffinato. E’ un po’ il cammino dell’Italia, la mortadella. E io spero di aver seguito lo stesso cammino”, ha ribadito diversi anni più tardi, nell’ottobre del 2013, ospite d’onore della prima edizione MortadellaBò, la festa organizzata dal Consorzio Mortadella Bologna, dedicata dalla città al suo amato salume, che quest’anno si terrà dal 9 al 12 ottobre.
Proprio come ha detto Prodi, persino il mondo della mortadella è stato contagiato dall’interpretazione gourmand, che oramai si rivolge a ogni ricetta tradizionale e a ogni ingrediente, specie quelli poveri. Non è più il salume della terza classe, di quando c’erano i “treni a vapore”, come ricorda l’emiliano Francesco Guccini nel suo Dizionario delle cose perdute: “La terza classe invece – ah la terza – era quella proletaria, quella delle valigie di cartone passate dai finestrini, quella delle urla ‘sbrigati che qui c’è posto’ fra sgomitare continuo, quella dei cartocci di pane e mortadella”. La mortadella si trova anche nella menu del ristorante più celebrato d’Italia, l’Osteria Francescana di Modena dello chef Massimo Bottura, che la serve in veste di stuzzichino sifonato. Ricordo di un panino alla mortadella è una spuma ottenuta con procedimenti di cucina cosiddetta molecolare, per arrivare a una concentrazione di gusto che dia l’estasi del sapore perfetto, come fosse un viaggio al centro dei ricordi che può scatenare nei suoi estimatori
Oggi esistono persino mortadelle di nicchia per esteti del cibo e gourmet, come quelle prodotta da Pasquini & Zivieri di Bologna (storico salumificio artigiano il primo, macellaio di culto il secondo) che per la prima volta utilizza esclusivamente le carni di maiale di razza Mora Romagnola, una specie autoctona delle zone di Forlì e Ravenna. Tuttavia, stando ai dati forniti dal Consorzio di Tutela, la mortadella resta un prodotto “pop”: nel 2013 sono stati prodotti oltre 38 milioni di kg di Mortadella Bologna IGP, e questo – sempre secondo il Consorzio – porta la Mortadella a essere il secondo salume tutelato (da un marchio comunitario) più consumato in Italia, dopo il Prosciutto di Parma DOP. Talmente diffusa, che ormai la sua bolognesità si è un po’ annacquata: basti pensare che nel disciplinare la zona di produzione della Mortadella Bologna IGP è molto vasta rispetto ai confini della città felsinea, e “comprende il territorio delle seguenti regioni o province: Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Veneto, Provincia di Trento, Toscana, Marche e Lazio”. Non è richiesto che i suini siano bolognesi, e nemmeno italiani. Dunque, a parte il caso di alcuni sofisticati produttori, la mortadella è bolognese più nell’immaginario popolare che nella realtà dei fatti. Proprio come Bologna ha dato ospitalità a studenti di tutto il mondo, la mortadella accoglie la globalità dei suini.