Sei mesi fa è uscito Gli sbafatori, un libro in cui racconto il mondo contemporaneo della critica gastronomica, composto perlopiù da persone miseramente o per nulla retribuite, e perciò largamente inattendibili. Di fatto, gran parte di quelli che oggi scrivono di cibo, vengono mantenuti e spesso anche intrattenuti da quei soggetti che invece dovrebbero esaminare a mente fredda. Pochi giorni dopo l’uscita del libro, nella posta di Facebook, ho trovato il messaggio di uno sconosciuto: ” Mi sono divertito molto a leggere il libro… Solo, per tua info, tutto il mondo è paese e qui è lo stesso…”. Ho googlato il nome di chi firmava, oltre a curiosare nel suo profilo FB: un ragazzo di Bra che lavora per Eataly, a New York.
Un mese più tardi mi sono trasferita a San Francisco per un lungo periodo. Una delle prime persone che ho conosciuto è stata Kitty Morgan, caporedattrice delle pagine di viaggi, cibo e vino del San Francisco Chronicle: “Siamo estremamente rigorosi,” mi ha detto. “Il nostro critico deve presentare il conto del ristorante che recensisce, e sottoscrive un patto in cui garantisce di non frequentare e tantomeno diventare amico di cuochi e proprietari di ristoranti. È una questione di principio, e se contravvenuta la rimozione è automatica”. Pochi giorni più tardi ho conosciuto Eleanor Bertino, la più nota e autorevole pierre di food della città. Uffici nel prestigioso Sentinel Building di proprietà dell’American Zoetrope della famiglia Coppola, amica storica di Alice Waters (la fondatrice di Chez Panisse), di Carlin Petrini, ma anche dell’artista concettuale David Ireland, mi ha detto: “Fammi sapere chi vuoi conoscere e te lo presento”. Parlare con lei è stato molto divertente e istruttivo. Di Michael Bauer, “restaurant critic and executive food and wine editor” del SF Chronicle, mi ha fatto notare che è basso, stortignaccolo, con lunghi capelli biondi probabilmente tinti e gira da 28 anni per i ristoranti di San Francisco, spesso col fidanzato alto due metri. Impossibile non notarli, impossibile non sapere chi sono: “Solo uno sprovveduto che apre un nuovo ristorante arrivando da chissà dove non li riconoscerebbe”. E ha aggiunto: “Bauer è potentissimo. Stila ogni anno la classifica dei cento migliori ristoranti della Bay Area e tutti vogliono ingraziarselo”. La Bay Area – San Francisco, Berkeley, Oakland, la Silicon, la Napa, la Sonoma Valley – conta circa sette milioni di abitanti, oltre alla massa dei turisti, degli studenti e dei lavoratori temporanei. La popolazione è composta da una risicata maggioranza di caucasici di origine americana o europea, un crescente quantitativo di asiatici pronti a superare i bianchi, una buona dose di latino americani, un 8% di neri. Queste quote, di fatto, corrispondono al genere di ristoranti presenti nella Bay Area. Eleanor Bertino mi ha fatto notare: “Ma se il SFC non paga viaggi all’estero e Bauer non è mai uscito dagli Stati Uniti, come fa a giudicare per la sua lista dei top cento la qualità di un ristorante birmano, vietnamita, del Bhutan o dello Yemen, italiano o spagnolo?”. Ai suoi clienti, Eleanor suggerisce di stare molto attenti i primi tre mesi dall’apertura, quando è quasi certa la visita di Bauer. Quanto a Yelp, il Tripadvisor degli americani, c’è una certezza: “Vari ristoratori mi hanno segnalato che quando vedi una tavolata di donne che fotografano i piatti, sei certo di finire su Yelp“. A quel punto, sta all’acume e alle buone maniere del manager darsi da fare prima che venga postato il commento.
Ma non è tutto: Aldo Blasi, proprietario del Ristorante Milano, da trent’anni sulla scena di San Francisco e attento osservatore e conoscitore del mondo del cibo, mi ha segnalato quanto la critica gastronomica americana sia diventata omogenea. Crea in coro degli idoli e poi, solo quando questi presunti nuovi idoli sono passati di moda, prudentemente, li distrugge. C’è il terrore di perdere il posto a tavola, di perdere le fonti e i regali, cioè di inimicarsi i pierre. Si tende a scrivere solo note positive, in tono esaltato, magnificando anche l’ultima falange della zampa del pollo cucinato da Angela Dimayuga, tralasciando ogni dettaglio negativo, magari sulla scomodità del locale. Se non siamo al “pay per play” (termine mutuato dal mondo della tv via cavo), poco ci manca. E anche i più celebri critici, quelli che si impegnano con i loro giornali a mantenere le distanze, li vedi poi fotografati con gli chef al party del James Beard Awards.
Le riviste e le rubriche di cibo sono noiosissime. “Solo il New Yorker o l’Atlantic, estranei al mondo del cibo, pubblicano inchieste interessanti e pezzi ben scritti. Nessun giornale del settore avrebbe pubblicato Considera l’aragosta di D. F. Wallace,” nota Eleanor Bertino, “mentre tutti pubblicano mirabolanti reportage da feste sponsorizzate per il compleanno di chef, di ristoranti, di marchi del cibo e del vino”.
Molti segnalano quanto il giornalismo gastronomico sia distrutto dalla moda delle classifiche. Poiché ai redattori vengono continuamente commissionati “i dieci più” di qualsiasi cosa (top ten panificatori, top ten pollo fritto, top ten sushi bar vegani), da compilare senza aver esperienza di nulla ed essendo rimasti tutto il tempo dietro a uno schermo di computer, non resta loro che ricorrere ai pierre del cibo per chiedere suggerimenti sui nomi da inserire nelle liste, al punto che i più scaltri pierre preparano a ripetizione “top qualcosa” da inoltrare ai loro redattori preferiti. Ne consegue un’altra delle leggi della scena gastronomica contemporanea americana: un cuoco o un ristorante senza pierre non finiranno mai in nessuna lista dei top ten, e di conseguenza non esisteranno.
Infine, se un tempo si concedeva un periodo di rodaggio di sei settimane prima di andare a visitare un ristorante per recensirlo, oggi si assiste alla celebrazione delle aperture. Blog, newsletter e giornali del settore hanno cancellato la differenza tra recensione e campagna pubblicitaria. Il commento sull’opening sta assassinando la critica gastronomica. Come dice Aldo Blasi, dopo l’estasi dell’opening, finisce tutto: “Invece sarebbe interessante recensire quei ristoranti – pochissimi – che cinque anni dopo sono ancora aperti”.
Soprattutto, anche negli Stati Uniti come in Italia, c’è una certezza: è quasi impossibile sopravvivere da critico gastronomico. “Un tempo, un critico autorevole poteva venire retribuito tra gli 80 e i 150 mila dollari. Oggi siamo sui 20/40 mila di media. Un articolo su un blog può essere pagato 10 dollari, mentre fino a pochi anni fa i collaboratori ne prendevano 2 a parola” mi dice un editor del prestigioso Food & Wine Magazine.
Tuttavia, se la critica gastronomica è data per morta, non moriranno di fame i critici: per gran parte dei giornalisti e blogger scrivere di cibo e vino serve anzitutto a divenire popolare su Twitter e, da lì, spiccare il volo verso posizioni lavorative meno volontaristiche, al servizio di marchi del comparto alimentare.