Camilla Baresani

Sommario

Fritta è buona pure una scarpa

- Domani - Cibo I miei articoli

L’estate dei nostri attacchi di fame porta con sé due grandi misteri, forse dovuti a un Gesù redivivo: la moltiplicazione del latte di bufala, ancora inedita, e quella dei pesci, già documentata ai lontani tempi degli evangelisti. Soffermiamoci per ora sul rinnovato miracolo dei pesci. Sono passati più di duemila anni da quando in Palestina Gesù sfamò cinquemila uomini con 5 pani e 2 pesci e, a seguire, quattromila con 7 pani e pochi pesciolini. Oggigiorno, sfamiamo milioni di italiani e centinaia di migliaia di turisti stranieri bramosi di fritto misto nonostante i fermi biologici, nonostante l’impennata dei prezzi, nonostante le norme del Ministero della Salute sullo scongelamento e sull’uso e riuso di olio da frittura. Questa volta non ci sarà bisogno di Atti degli Apostoli per certificare l’avvenuto miracolo moltiplicativo: a noi contemporanei, per testimoniare la prodigiosa sovrabbondanza di gamberi e calamari, basta raccogliere i menu, locale per locale, sito web per sito web.

Va anzitutto constatato che non sono solo i ristoranti e le trattorie a offrire pesce fritto, ma si aggiungono pizzerie, camioncini, pescherie, stabilimenti balneari, bar, enoteche. All’ora del famigerato apericena, alla faccia del salutismo di cui si parla moltissimo nei giornali ma che pratichiamo ben poco nella nostra vita già grama, è tutto un offrire “prosecchini” rinforzati dal fritto di gamberi e calamari, ideale ghiottoneria finger picking. Non occorre neppure fornire le posate, bastano al limite gli stecchini di legno. Del resto, come già scriveva nell’Ottocento il magistrato e gastronomo francese Anthelme Brillat-Savarin, “Il fritto è sempre ben accetto nei ricevimenti, dove introduce un’appetitosa variante: si presenta bene, conserva il suo sapore primitivo e può essere mangiato con le mani, cosa che piace sempre alle signore”. Piace anche ai signori, se è per quello, e piace persino quando non conserva il sapore originale.

Serviti in pastella, in tempura, passati nel panko, nella farina di mais o nella più banale 00, con salsa di peperoni, con lo svirgolo di aceto balsamico, con maionese o con salse e glasse che ancor peggio del limone coprono il gusto, ecco a voi il fritto di crostacei e molluschi. Perché tanto “fritta è bona pure ‘na ciavatta e ’na sola de scarpa”, come giustamente si dice a Roma. Dunque, al croccantino salato della frittura si aggiunge il cremoso di una salsa spesso dolciastra, e son tutti contenti.

Del resto, il pesce fritto ha sempre avuto successo: era economico rispetto ad altri piatti di pesce, si cucinava anche in casa, ingolosiva persino nonni inappetenti e bambini riottosi. Ora, come sostiene un famoso ristoratore col gusto del paradosso (e che vuole restare anonimo), una specie di star del pesce spesso ingaggiata con il suo staff per sontuose cene private, “c’hanno case con piscina, 6 macchine, 24 motorini, e solo 4 fornelli. Insomma, le cucine di nonna Papera. E non sanno neppure usarle. Hanno il terrore che la casa puzzi e si sporchi, e comunque più nessuno è capace di far niente”. Capita anche in case senza piscina e parco automezzi, posso confermarlo. Del resto, chi te lo fa fare di metterti a impestare la cucina, quando basta scendere in strada e qualcosa di fritto lo trovi a due portoni di distanza?

Così, dato che in ognuno di noi s’annida un ghiottone che non vede l’ora di pinzare con le dita la sua dose di frittura, finisce che la si consuma a casaccio, dove ci attira nel menu – ossia quasi dappertutto, anche in enoteca – e senza porci troppe domande.

Ma se invece ce le facessimo queste domande, cosa succederebbe?

Partiamo dalla materia prima, con i due elementi più richiesti del fritto misto, ossia calamari e gamberi. Almeno nel 90% dei casi, si tratta di mollame e crostacei surgelati o congelati. Quanto alla provenienza, scordiamoci che sia dei nostri mari. Di solito, arrivano dall’Oceano Indiano – India, Cina, Vietnam, Thailandia – oppure dalla Patagonia. Si compra il prodotto in blocchi, oppure nel più costoso formato “IQF” (Individually Quick Frozen), cioè pesce pulito, lavorato, magari già tagliato ad anelli nel caso dei calamari, infine surgelato in singoli pezzi.

I gamberi e le mazzancolle usati nei fritti sono di solito d’allevamento intensivo e di provenienza tropicale o subtropicale e, al di là delle nequizie ecologiche che gli si imputano (inquinamento e distruzione della vegetazione costiera di mangrovie), sono trattati con antibiotici, nei casi peggiori anche con pesticidi. Di migliore qualità e prezzo superiore i gamberi argentini, mentre i peggiori sono ritenuti quelli indiani, venduti in blocchi ghiacciati, senza testa e sgusciati. Quanto ai calamari, quelli dei mari caldi sono più dolci, quelli dei mari freddi più sapidi. Vengono puliti e trattati a livello industriale, con additivi che, oltre a eliminare la pellicola (il mantello) che li riveste, sbiancano la carne. Sono poi surgelati a -40° e i ristoratori dovranno conservarli a -18°. Nel blocco ghiacciato una percentuale che sta tra il 20 e il 30% è data dalla glassatura, ossia acqua di glaciazione e umori dei molluschi.

Tutti i surgelati vengono messi in vendita con quotazioni relative a sigle che indicano unità di misura, pezzatura e provenienza.

Poiché i professionisti della ristorazione che comprano pesce fresco alle aste o direttamente dalle barche sono solo una minima percentuale, va da sé che la maggior parte dei locali compra pesce surgelato o congelato, spesso già pulito, tagliato, porzionato: lo dissurgelano immaginando quanta richiesta avranno nel corso della giornata, e via con friggitrici classiche e ad aria (queste ultime in mancanza di una vera e propria cucina e delle necessarie autorizzazioni).

Il pesce fresco, che è disponibile in dosi radicalmente inferiori alla richiesta, richiederebbe comunque personale capace di pulirlo, aprire il carapace senza smembrare i crostacei, eviscerare, togliere occhi e ossi cartilaginosi interni e becco, tagliare ad anelli, infine congelare con la corretta procedura quello che non verrà consumato in giornata. Inoltre, la materia prima fresca è commerciata con prezzi molto alti, data la mancanza di disponibilità. Per esempio, nei nostri mari in luglio e agosto non si pescano calamari ma totani, più duri e gommosi, meno pregiati. E poi ci sono i fermi biologici o fermi pesca: i consumatori spesso non lo immaginano, ma proprio nei mesi estivi e nelle località dove trascorrono le vacanze capita fatalmente di essere nella vasta zona in cui è proibita la pesca. Da circa 35 anni, per proteggere il patrimonio ittico, la UE ha stabilito che la pesca industriale a strascico sia fermata per 45 giorni nel corso delle stagioni più calde nei vari compartimenti, in successione uno dopo l’altro. In Italia abbiamo il compartimento marittimo tirrenico e ionico, quello adriatico, la Sicilia e la Sardegna.

Ecco il miracolo della moltiplicazione: mentre voi siete in vacanza a Jesolo, a Maratea, alle Cinque Terre, convinti di nutrirvi di pesce locale crudo o fritto o al vapore che sia, i pescherecci restano fermi in porto per non disturbare la riproduzione naturale delle specie, mentre camion, navi, aerei cargo tracciano rotte dal considerevole impatto ambientale (quello che a parole tutti noi deprechiamo), per recapitare il pesce surgelato su cui stiamo per scatenare la nostra golosità. Durante i fermi biologici, possono uscire solo piccole barche da pesca che usano la tecnica a sciabica e che poi tornano in porto con limitati quantitativi di pesce, costosi rispetto al surgelato. Sono le barche da cui si riforniscono le pescherie e i ristoratori di maggiore qualità, non certo gli improvvisati che magari stanno aperti solo nei mesi estivi. Per esempio, i balneari quasi mai sono in grado di andare a un’asta o alla cooperativa pescatori a fare la spesa, e per giunta hanno staff reclutati in extremis, non addestrati a lavorare il pesce. Per tutta questa massa soverchiante di produttori di pasti ci sono dunque i grossisti che forniscono prodotti pronti da scongelare e buttare nell’olio o nella friggitrice ad aria. Anche nel surgelato/congelato c’è poi una notevole disparità di prezzi. Dai 3/5 euro al chilo dei prodotti più scadenti, fino ai 15/20 della materia di qualità.

Aggiungiamo che quest’anno è quintuplicato il prezzo dell’olio da frittura, e un locale dovrebbe cambiarlo una volta al giorno, al massimo ogni due, se lavora poco. Vanno svuotate le vasche, puliti i filtri, tenuto un registro dello smaltimento dell’olio esausto… Crediamo davvero che siano così rigorosi tutti gli infiniti locali che ci offrono il fritto misto, dotati come sono di staff di cucina improvvisati?

Anche il prezzo del gasolio marino è molto cresciuto. Da 0,7 a 1,30 euro al litro. Diversi imprenditori della pesca considerano che andare in mare stia per diventare antieconomico, e che di questo passo sarà più conveniente tenere le barche ferme e chiedere la cassa integrazione. Secondo le sconfortanti considerazioni del nostro ristoratore anonimo, “la gran parte delle cose che mangi nei ristoranti è merda”. E oltre alle nefandezze della materia prima di pessima qualità, con ristoratori e clienti che non pretendono di verificare la tracciabilità dei prodotti ittici (“Questa moltiplicazione del pesce è una Babilonia”), aggiunge il tema dei guasti della conservazione. Quello che avanza dallo scongelamento, quando in cucina sbagliano il calcolo, che fine fa? Avranno l’onestà di cuocerlo, di farci una salsa o una bisque? E se non sono capaci? Se sanno solo friggere? Non è che viene ricongelato? Dopo avermi instillato questi dubbi atroci, dalla nostra fonte anonima arriva però un utile consiglio: orientiamoci sui locali dove in lista c’è il fritto di paranza, “che è il fritto più attendibile e che richiede un minimo di conoscenza del territorio. Perché la vera frittura è di merluzzetti, triglie, alici, zanchette, calamari, aguglie, schie…”.