Di intossicati dal sushi non ne ho mai conosciuti, da ostriche e cozze sì. Il senso di avvelenamento che ci dà ormai il sushi è di tutt’altro genere. Leggete come si presenta via Internet una nota catena milanese di ristoranti e take away di sushi e sashimi (l’obiettivo sarebbe quello di spingere al franchising aspiranti imprenditori): “Con la nostra proposta abbiamo centrato i gusti di quella parte di popolazione appartenente, statisticamente parlando, al fenomeno dei Baby Boomers: per Baby Boomers s’intendono quelle persone nate nei paesi più industrializzati tra gli anni ’50 e i ’70. Queste generazioni, nate nel mondo occidentale, possono esser definite le più fortunate della storia: non hanno conosciuto gli orrori della guerra, hanno vissuto il boom economico e hanno quindi focalizzato la loro attenzione su tutto quanto serve a soddisfare i loro bisogni primari; scelgono tutto ciò che fa moda; l’input è seguire le tendenze! Il profilo caratteriale li rende molto attenti alle novità, anche quelle in campo culinario, alle problematiche dietetiche, ai viaggi; tendono a migliorare il proprio aspetto fisico o nascondere l’età che avanza”. In pratica è l’odioso ritratto di una genia di smidollati, gente cui il benessere e la pace hanno inflitto guasti peggiori della fame e della guerra. Dopo aver letto e sospettato che un simile profilo sia ritagliato su di noi, magari non viene voglia di gettare tutto alle ortiche come fa la psicotica protagonista dell’ultimo film di Özpetek, però ci sente stimolati alla ribellione e al boicottaggio.Del resto, esaurito da tempo il bonus di fascino garantito alle novità, il sushi e il sashimi ci stanno venendo a noia. è già successo con la rucola, poi con la nouvelle cuisine e col povero Gualtiero Marchesi, sta succedendo con il giapponesismo incalzante.
Vent’anni fa, quando la cucina italiana di pesce risentiva ancora di un sovraccarico di grassi e di aglio e prezzemolo, la ventata di pesce crudo in arrivo dal Giappone sembrò una liberazione. E non solo in Italia, visto che in tutto il mondo permetteva ai viaggiatori lontani da casa di mangiare senza danneggiarsi il fegato. Chi si trovava in Brasile, al secondo giorno di feijoada e churrascarie trovava salvezza rifugiandosi nei sushi bar; idem a Mosca, dove c’erano solo ristoranti georgiani o francesi, quindi aglio, trippa e fegato d’oca: il sushi ti rimetteva in sesto.
In Italia, quando sul finire degli anni ‘70 apparvero i primi ristoranti giapponesi, allora carissimi, il consumo di pesce crudo era ancora ritenuto un costume primitivo limitato ad alcune zone costiere del meridione. Pugliesi e siciliani sfidavano il vibrione trangugiando frutti di mare crudi. E noi osservatori tendevamo a mettere sullo stesso livello di pericolosità gli scampi e le cozze, senza considerare che i molluschi vivono filtrando acqua tra le valve e trattengono virus e batteri, mentre la carne del pesce è integra – o perlomeno lo era. Negli ultimi anni, infatti, tra salmoni, sgombri, merluzzi, acciughe, tonni e pesci spada s’è notevolmente diffuso l’anisakis, un parassita che dal pesce si trasferisce direttamente all’uomo, pinzandosi alle pareti dell’intestino, e muore solo col congelamento o la cottura ad almeno 60 gradi. Se il pesce viene consumato fresco e crudo, può essere utile il wasabi, quella poltiglia verdastra di piccantissimo rafano servita con sushi e sashimi: è un potente germicida, come il peperoncino e l’aglio, e dovrebbe contribuire a scongiurare parassitosi e infezioni intestinali. Ma non è detto che sia sufficiente a preservarci dalle intossicazioni, tant’è che la prima spiegazione che si diede ai sintomi di avvelenamento del presidente ucraino Viktor Yushchenko fu che la sera della cena incriminata, quella del bacio dal sapore metallico, il sushi che aveva mangiato fosse avariato.
Allan Bay, gastronomo e fortunato autore dei best seller Cuochi si diventa, ritiene che il successo mondiale del sushi sia dovuto alla congiunzione tra apparenza dietetica e leggerezza, graditi ai consumatori, e l’alta redditività favorevole agli imprenditori del settore. Il sushi e il sashimi hanno ricarichi simili a quelli della pizza (e come la pizza cominciano ad avere un grande successo nel campo dei cibi da take away). Il pesce deve infatti essere fresco ma non necessariamente di qualità: con un branzino d’allevamento da 12-15 euro al chilo si fanno una quantità di listarelle da sushi, e i cascami di lavorazione sono riciclabili nei vari tipi di maki (i rotolini e i coni d’alga e riso). E’ senz’altro più facile guadagnare con pesce crudo e riso bollito che gestendo un ristorante tradizionale dal menu composito, con molti piatti che richiedono preparazioni lunghe e complesse. Il sushi è insomma un affare, e lo dimostra il fatto che non ci si sono gettati solo i giapponesi: gran parte dei locali che lo propongono è di proprietà italiana o cinese. “Comunque, una pizza mal lievitata dà più fastidio di un sushi cattivo” aggiunge Bay. In pratica, a parità di freschezza della materia prima, si fa più fatica a preparare una pizza digeribile che una porzione di sushi decente.
Quanto alla cucina giapponese: la realtà è che quella cotta non ha alcun successo. Al ristorante si finisce per scegliere quasi sempre sushi o sashimi (cioè le striscioline di pesce crudo, non appallottolato con riso e wasabi). Per curiosità, le prime volte, si ordina magari il tempura, che ha l’aspetto allettante tipico dei fritti ma non è certo più appetitoso e vario di un fritto misto alla piemontese o di uno di paranza. I molli e scivolosi spaghettoni (udon) di grano tenero, galleggianti in una brodaglia scura, non attirano l’occhio e nemmeno il palato: assaggiati, più volte e in vari ordini di ristoranti, mi hanno fatto rimpiangere persino il vituperato minestrone di verdure che ti affibbiavano nella mensa scolastica delle Orsoline. E la carne e il pesce e gli spiedini, sapientemente dissezionati e cotti sulla piastra sotto il naso del cliente? Sembra difficile credere che qualcuno entri in un ristorante giapponese solo per farsi affumicare come in una baita trentina. A studiare il “fenomeno” rimane dunque solo l’appeal per molti versi anche estetico del pesce crudo, che ormai possiamo trovare in qualsiasi buon ristorante italiano, dovein genere c’è comunque una miglior scelta di vini, e pane invece del pappone di riso scotto e incollaticcio, e verdura fresca a volontà.
All’inizio, certamente, la rivalutazione e scoperta del pesce crudo sono stati molto positivi per la cucina italiana: hanno contribuito a far capire che un pesce lasciato nel forno troppo a lungo si asciuga, si disfa, e spesso diviene filaccioso. E che gli intingoli lo rovinano, e l’abuso di aglio e prezzemolo anziché esaltarne il sapore lo cancella. Grazie al sushi abbiamo anche riscoperto il tonno. Un tempo lo consumavamo solo in scatola sott’olio. Nei ristoranti lo servivano in tranci grigliati fino alla completa cottura, che però – data la consistenza delle fibre – lo rendeva duro e asciutto. A un certo punto ci si è accorti che i giapponesi lo mangiavano crudo in sapidi bocconi, morbidi quasi come i tranci burrosi del salmone. Maria Giunta Anzalone, chef dei Malavoglia di Milano, cominciò allora a unire le due tradizioni, la siciliana e la giapponese, inventando quella tecnica di cottura del tonno marinato che lo fa sembrare un filetto al sangue, e che ormai viene proposta – assieme alla tartare e ai carpacci di pesce – in tutti i ristoranti italiani, persino in quelli di tajarin e tartufi delle Langhe più sperdute. L’avvento del sushi ha dunque avuto inizialmente un influsso positivo sulla cucina nostrana, ma adesso, esaurita la novità, cominciano a palesarsi nuovi influssi, più fastidiosi e sconcertanti.
Tra le nefaste conseguenze della giapponesizzazione dei nostri ristoranti va anzitutto segnalata la scomparsa, in molti locali, delle tovaglie. A prezzi che non sono quelli delle osterie di campagna, siamo costretti a mangiare direttamente sul tavolo, spesso addirittura senza nemmeno un cencio o un rettangolino di carta su cui appoggiare piatto e posate. Persino locali con presunzione di eleganza apparecchiano la tavola con bende adatte tutt’al più a un tè coi biscotti servito sul tavolo della canasta. E i piatti? Bislunghi e dagli angoli acuminati, per cui si suppone siano stati progettati anche appositi cestelli per le lavapiatti. Sono forme che hanno senso quando le devi riempire di monterozzi e coni variopinti, ma diventano ridicole se usate per servirci le lasagne o il baccalà con polenta. Insomma, facendo un bilancio della situazione si può dire che la gastronomia italiana s’è giapponesizzata ricavandone preziose suggestioni in tema di cottura delle materia prima, ma adesso sarebbe ora che si verificasse un’inversione di tendenza e che i ristoranti giapponesi cominciassero a italianizzarsi. Basta coi tavolini quadrati incollati l’uno all’altro, in locali così piccoli dove non c’è neppure lo spazio per appoggiare una borsa o un cappotto e ti tocca mangiare appollaiato su uno sgabello tenendoti tutto in grembo; e perché pagare quasi 30 euro per pasti consumati in condizioni da paninoteca, con una scelta di birra o vino ridotta a due per tipo? Cantina discreta invece da Nobu, costoso e strombazzato stanzone milanese (ricorda certe sale da dopolavoro, le luci fioche da coprifuoco e una tetra essenzialità), dove si serve cucina fusion-giapponese. All’arrivo una signorina v’accoglie con un grido, subito ripreso dal coro dei sushi boys affaccendati dietro al bancone. Cos’avranno da urlare? Vi danno il benvenuto. Pare siano disposizioni di Nobu rispettate in tutti i suoi ristoranti sparsi per il mondo. Sono consuetudini che dovrebbero risultare accattivanti e invece si riducono a puri stereotipi, spesso fastidiosi, come gli stornellatori chiassosi dei ristoranti romani per turisti. Lo slogan dovrebbe essere “Silenzio, si mangia!”, e questo vale per tanto per il sushi quanto per l’amatriciana.