Svegliarsi alle 4 a Carugate, a Baranzate, a Tradate, a Usmate, a Bollate – insomma, in uno dei luoghi sparsi nella cintura della Grande Milano -, uscire e caricare il camion dal magazzino di casa oppure passare dall’ortomercato per fare acquisti. Arrivare alle 6 al mercato rionale, spazientirsi perché il posto di cui si è assegnatari è occupato da auto dimenticate da cittadini sbadati, farlo notare ai vigili, aspettare che il carro attrezzi le rimuova, prendere infine possesso della postazione. Pulire, se qualche cane o essere umano ha lasciato rimasugli dei suoi pasti, montare il banco, disporre le merci, essere pronti per le 8, quando gli ancora radi clienti cominceranno ad aggirarsi tra i banchi.
Succede cinque o sei giorni alla settimana, col sole e con la pioggia, col gelo e con la calura, con le raffiche di vento e con gli attacchi di fameliche zanzare diurne. Alla fine, alle due del pomeriggio nei giorni feriali e alle sei di sabato, rifare tutta la procedura, ma al contrario. È la vita degli ambulanti, e quando chiedi loro se ne vorrebbero una diversa, il negozio con la vetrina, il climatizzatore, le merci già esposte, la serranda, il nome sull’insegna, ti dicono di no e poi no. Non ce n’è uno che voglia muri intorno a sé e alla propria mercanzia. Per gli orari, dicono. Ma scusi, lei si alza alle quattro e torna a casa dodici ore più tardi… Allora precisano che il negozio costa troppo, e comunque da ambulante resta il pomeriggio quasi libero, e magari aggiungono anche un “sono cresciuto sotto il banco”, perché l’ambulante è perlopiù un mestiere che si fa da generazioni.
Nell’Italia lamentosa e infelice, se parli con gli ambulanti di via Benedetto Marcello, a Milano, nessuno sembrerebbe ambire a un altro luogo in un altro modo. Siamo tra la Stazione Centrale e Corso Buenos Aires – l’arteria commerciale più estesa della città -, a pochi passi dai resti del quattrocentesco Lazzaretto reso famoso dai Promessi Sposi. Via Benedetto Marcello, realizzata con impegno architettonico e botanico nel 1888 (e dal 1965 sottoposta a vincolo paesaggistico) ha al centro per tutta la sua lunghezza un rettangolo occupato da giardini nella parte sud e da un parcheggio disordinato nella parte nord. Di martedì e sabato, il parcheggio si trasforma in uno dei più grandi mercati rionali della città, duecento banchi, perlopiù alimentari con spiccata prevalenza ortofrutticola. È dai primi anni Trenta che sta lì, da quando nella via fu collocato il capolinea della tranvia interurbana di Milano, la Milano-Vaprio d’Adda, orgoglio cittadino in quanto prima linea a vapore del Paese. Ora la tranvia non esiste più, c’è il metrò, ma il mercato è rimasto, col tempo si è ingigantito tra le ricorrenti proteste degli abitanti della strada, rimostranze che riguardano anzitutto il problema delle auto da parcheggiare in un introvabile altrove ogni dannato martedì e sabato.
Per raccontare Milano abbiamo scelto questo mercato rionale – uno dei circa cento settimanali della città – perché è una vetrina di ogni possibile novità sociale innestata nelle più solide tradizioni urbane. Se dovessimo raffigurarlo in una vignetta, potremmo disegnare un banco con le statuine dei frequentatori-tipo, cliché alla maniera delle statuine da presepe di San Gregorio Armeno a Napoli (del resto, la via San Gregorio milanese è qui a pochi passi, con la sua frequentatissima chiesa russo ortodossa), cominciando con la coppia anziana e borghese, lui col bastone, lei col giro di perle, in rappresentanza degli abitanti delle belle case di inizio Novecento prospicienti il mercato. Avremmo poi i pupazzetti delle domestiche filippine e delle badanti ucraine e moldave, che fanno la spesa per chi non ha più la voglia e la forza di uscire di casa. Abbiamo sicuramente qualche giovane donna italiana, una mamma dello standard biondo-milanese, che potrebbe aver appena accompagnato la prole al liceo Volta o al collegio Gonzaga, oppure una di quelle ragazze che svolgono lavori creativi e comunicativi dal computer di casa, e che magari abita una delle casette monofamiliari della zona, ormai deprezzata dalla massiccia presenza di immigrati. Ci sarebbero l’immancabile cinese, la pakistana con il capo coperto dal dupatta, la bengalese in sari, la nordafricana niqabbata con il marito che la scorta durante la spesa per impedirle contatti e sfioramenti con commercianti maschi. Ci sono i neri del centr’Africa, appoggiati a muri o a tronchi d’albero, che non comprano ma vendono abusivamente cinture e borse contraffatte e alimentari etnici, merce che tengono nascosta nel bagagliaio di auto parcheggiate ai margini del mercato; ci sono le prostitute decrepite tipiche del quartiere, di solito tunisine e algerine, ma non mancano quelle in gita, di solito giovani nigeriane scaricate dai treni regionali, che non abitano nelle case di ringhiera del quartiere ma in lontani capannoni periferici. C’è la zingara col gonnellone, che legge la mano, c’è quella incinta con la borsa a tracolla specializzata nel borseggio, c’è il bambino zingaro pure borseggiatore, c’è il tipo incavolato perché è andato a dormire senza spostare l’auto e ora gliel’hanno rimossa, c’è la coppia di vigili, ci sono i latinos che fanno incetta di alette di pollo arrosto e di pesce persico per il chevice. Ci sono gli eritrei, sempre in gruppo, il trans brasiliano imbottito di silicone e tallonato dal fidanzato orgoglioso delle sue protuberanze, ci sono i vecchietti italiani che quando si smonta setacciano gli scarti del mercato, prima che gli squadroni di netturbini passino con le scope, le spazzole e l’idrogetto e gli spazi tornino a riempirsi di auto parcheggiate. Ci sono gli ambulanti assegnatari, fino a quindici anni fa nativi italiani (ormai rimasti in minoranza), e ci sono gli “spuntisti” (tutti di origine straniera) cui i vigili dell’annona assegnano alle 8 del mattino gli spazi liberi per la giornata, spuntandone i nomi dalla lista dei prenotati.
Dove un tempo c’erano cime di rapa, lampascioni, pomodorini appesi, oggi si trovano daikon, coriandolo, eddos, zenzero, okra e pak-choi, verdure esotiche richieste dalla maggioranza dei clienti, che non è più d’origine italiana. Ci sono banchi di pani e formaggi, pollame, salumi, pesci, ci sono gli acciugai che vendono frutta secca, acciughe, baccalà, mostarda, sottaceti, legumi, canditi. E mercerie, casalinghi, biancheria intima, scampoli, suppellettili in alpacca dismesse da vecchie navi da crociera, scarpe, abbigliamento, musica, piante e fiori, materiale elettrico e idraulico… c’è praticamente di tutto, e potresti non aver bisogno di alcun altro negozio per anni. Ma quando parlo con Maurizio, il proprietario di un banco storico specializzato in funghi, tartufi e misto bosco, un banco che è in via Benedetto Marcello ormai da cinquant’anni, sostiene che la fine si avvicina, che il mercato rionale è anacronistico, che dopo due o tre generazioni di cardoncelli, finferli, porcini, chiodini, pioppini, mazze di tamburo, lamponi, fragoline e more, ormai i clienti vanno diradandosi e sono venuti a mancare gli habitué, le famiglie che ogni settimana si facevano preparare la cassetta: “La fascia produttiva va nei supermercati, che sono dappertutto e sono aperti fino a sera per chi torna tardi dal lavoro”, constata senza amarezza, cronista di un cambiamento sociale irreversibile. Non si lamenta dell’invasione multietnica: “Gli italiani hanno imparato a mangiare esotico, e viceversa. La vera integrazione si vede qui, sulla strada”, nota con semplicità.
La stessa cosa la affermano tutti gli ambulanti italiani cui chiedo cosa pensino della predominanza di banchi etnici. Mi aspettavo razzismi, leghismi, invettive, e invece scopro – e rimango sorpresa – che nessuno ce l’ha con gli altri, a parte i soliti zingari che vivono di furti e pare siano l’unico problema di convivenza che non funziona e che unanimemente viene denunciato. Cosa bisogna migliorare, allora? Sono tutti d’accordo che il Comune potrebbe fare di più: il problema è la pavimentazione sconnessa, la mancanza di spazi segnalati magari con un numero, in modo che all’arrivo ci si possa sistemare con maggior ordine e precisione. “Il parcheggio è una cloaca a cielo aperto, per fortuna il mercato porta una pulizia radicale due volte in settimana”, aggiunge Maurizio, il funghista.
Di fatto, si esprimono in un italiano impeccabile: il dialetto dev’essere qualcosa che appartiene a un passato pre-televisivo. Cloaca, esotico, anacronistico, fascia produttiva sono alcuni dei termini appropriati che ho sentito utilizzare e che ormai, invece, si fatica a sentire pronunziare nei salotti televisivi, frequentati da politici che sbracano con più facilità degli ambulanti di via Benedetto Marcello. Mohammed, un egiziano esteta che ha un banco in cui sistema frutta e verdura su teli bianchi, perché ne risaltino i colori, e compone agglomerati di zucchine, pere, carote in forme aggraziate, spiega che all’Esselunga fanno offerte alla metà del prezzo che lui paga all’ortomercato. “È un mestiere che finirà, non lo lascerò ai miei figli”, constata. Con i dipendenti e i vicini di banco parla nella sua lingua aspirata, piena di h, ma a me si rivolge in italiano corretto, col linguaggio consueto del commerciante milanese: “Cosa desidera cara, assaggi questo cara, sono carciofi di Imperia cara”. Il “cara”, con la sua carica di untuosità commerciale, è diventato uno standard delle vendite e ha sostituito il “signora” e “signorina” del passato.
Il mercato porta clienti anche ai negozi? Lo chiedo a Luigi e Carmine Amato, giovani proprietari della frequentatissima pizzeria/trattoria/street food Frijenno e Magnanno, che sta davanti alle bancarelle tra una trattoria toscana e una indiana. “Per noi non cambia nulla, quelli che si avvantaggiano sono i bar, se non altro perché i proprietari dei banchi devono andare in bagno, e allora non resta che prendere almeno un caffé ogni volta che si chiede la chiave”. Capita di avere problemi, con tutti questi neri che vagano nel parcheggio e vivono giorno e notte tra le panchine e l’incrocio, senza apparente occupazione? Ci sono spaccio, risse, disordine? “No, niente. I neri al limite vendono qualcosa di falso nel parcheggio, ma non litigano, non gridano, sono tranquilli. La cosa più impressionante che succede qui davanti sono i raduni di pachistani: sono tantissimi, si filmano l’un l’altro, discutono dei problemi della loro comunità e fanno collette per i commercianti in difficoltà. D’altronde”, aggiunge Luigi, i cui avi napoletani a fine Ottocento erano venditori ambulanti di spaghetti, “una decina di anni fa dev’essere venuto ad abitare qui un magistrato, perché da allora la strada è cambiata: niente spaccio, pulizia, controlli continui”. E aggiunge: “Sarebbe auspicabile che questi controlli si concentrassero più sugli zingari che sui poveri bengalesi che vendono aglio e limoni senza licenza”. Tutto tranquillo anche per Chiara Perugini, proprietaria di Paltò – prima e seconda mano, un negozio di oggetti e abbigliamento vintage. Di origine romana, ha deciso di aprire il suo negozio, avamposto gentrificato di uno dei futuri possibili della zona, proprio di fronte alle bancarelle del mercato, perché le ricordano l’atmosfera di Piazza Vittorio, luogo totem dell’intelligentzia letterario-cinematografica romana.
Certo, il modello del mercato coperto, con le nicchie di street food e i banchi di cibi ricercati, sul genere Eataly o Mercato Centrale, è lontanissimo dal mondo brulicante e verace del mercato di via Benedetto Marcello. Quanto alla fine incombente, preconizzata da tutti gli ambulanti, non resta che augurarsi che sia come quella del libro di carta, una minaccia senza fondamento. Ci sarà sempre bisogno di una palestra etnica, un luogo d’incontro a portata di tutti in cui vecchi e nuovi italiani scambino linguaggi, mercanzie, modi di esistere.