Camilla Baresani

Sommario

La cotoletta, vent’anni dopo

- Il Foglio - Cibo

“È una stronza frustrata perché grassa”. Quella sgradevole persona sono io. È stato Stefano Gabbana a definirmi così in un’intervista barbarica di Daria Bignardi, su La7. Era il 2006, quasi vent’anni fa. Diario di una golosa era il titolo della rubrica sui ristoranti italiani che tenevo nell’inserto domenicale di Il Sole 24 ore: raccontavo i risultati gastronomici ma anche l’ambiente, gli arredi, le persone che li frequentavano. In piazza Tricolore, a Milano, c’era un nuovo grande locale di Dolce & Gabbana, il Gold. La coppia di stilisti si era lanciata in un’attività imprenditoriale collaterale, la ristorazione. Scrissi che il cibo non era il punto forte dello scintillante locale e mal ne incolse al giornale. Vennero di colpo decurtati centinaia di migliaia di euro di investimenti pubblicitari, a mo’ di ritorsione. Le domande di Daria Bignardi riguardavano proprio l’esistenza di un diritto alla recensione positiva in cambio di pagine pubblicitarie, sbandierato dalla coppia di stilisti. Non erano i primi stilisti a rivendicarlo, la storia dei giornali era lastricata di vendette rivolte alle critiche subìte, talché le rubriche di moda erano famigerate per il consenso unanime e sempiterno tributato a ogni collezione portatrice di pagine pubblicitarie e anche di graditi doni ai giornalisti: viaggi sontuosi, vestiti, borsette, cosmetici e via dicendo. Tuttavia, il mio caso era (ed è rimasto) un unicum: totalmente estranea al mondo della moda, subivo con il giornale l’affilata arma della vendetta, non per aver criticato una collezione bensì per aver descritto la triste fine di una fettina di vitello trasformata in cotoletta immangiabile. Poco dopo, il giornale riottenne la sua pubblicità grazie all’immediata pubblicazione di un elogio del ristorante (non a mia firma) e tutta la vicenda, resa pubblica da Striscia la notizia con relativa consegna di tapiri, mi conferì un’effimera notorietà di “giornalista della cotoletta” o in alternativa di “stronza frustrata perché grassa”. Da allora, ogni volta che un direttore mi ha incaricato di scrivere una rubrica di ristoranti, vengo pregata di essere prudente: “I lettori non amano leggere stroncature, segnala solo quello che ti piace, lascia perdere il resto”. 

Questa digressione autobiografica torna utile per evidenziare come da quel nemmeno tanto lontano giorno ci sia stata una significativa evoluzione del mondo della moda, del cibo, della percezione di sé. Oggi, se la celebre coppia di stilisti andasse in televisione a insultare una donna, affibbiandole deprecabili connotazioni morali quali conseguenze del sovrappeso, subirebbe shitstorm provenienti dall’orbe terraqueo. La categoria “grasso” come insulto è stata giustamente messa al bando, mentre le multinazionali della moda per allargare il proprio mercato non si rivolgono più solamente a “cigni della Quinta Strada”, ad aristocratiche europee, a invisibili principesse arabe. Ci sono nuovi clienti, nuovi volti e soprattutto nuove genetiche. Le inappetenti bellezze caucasiche non stanno più al centro dell’immaginario estetico: nuovi corpi e nuovi desideri hanno allargato il ventaglio dei gusti e di conseguenza degli acquisti.

Le multinazionali della moda si sono adeguate a creare abiti tagliati su eleganze poco europee, adatti a deretani imponenti ed esibiti, costruiti non per alludere, per celare mostrando preziosismi di geometrie, cuciture, tessuti e ricami bensì in funzione servile, una funzione che un tempo era riservata alla biancheria intima: mostrare, esaltare le forme, enfatizzarle. Sex sells. 

La moda ha subito la fascinazione dello street style e dei mercatini delle pulci, si è adeguata agli stili e forme dei nuovi ricchi di paesi emergenti ed emersi. Le collezioni vengono affidate a cantanti e musicisti con il loro vistoso gusto da palcoscenico, alla Scaramacai. I tatuaggi sono entrati in competizione con l’abbigliamento e alla fine si è creata una moda svestita che permette al tatuaggio, alla chiappa, al capezzolo di partecipare al look finale. Il piacere del ridicolo, del parossistico, del ribaltamento ha invaso molte collezioni: la canottiera (tanktop) magari di Prada, le ciabatte e lo sciabattare (magari le pantofole gonfie di Bottega Veneta color verde granita), le sneacker dai colori e dalle forme carnascialesche (come le Triple S di Balenciaga). E nel mondo gastronomico cosa è successo? Un tempo erano strade antitetiche. O mangiavi o ti vestivi. Come scrisse l’editorialista del New Yorker Abbot James Liebling (“Tra i pasti. Un appetito per Parigi”, Edizioni Settecolori), il requisito fondamentale del gourmet è un appetito vigoroso. “Senza un buon appetito è impossibile accumulare, nell’arco di tempo concesso, un’esperienza alimentare sufficiente a crearsi un gusto”. Le gran signore, le aristocratiche, le ragazze bien, le maestre di stile erano radicalmente inappetenti, cincischiavano il cibo nel piatto senza mai portarlo alla bocca, benché poi non disdegnassero supporti alcolici, soprattutto champagne, per placare l’inevitabile male di vivere che nemmeno una perfetta magrezza può cancellare. Riguardo a questo particolare versante della nutrizione, rimane memorabile il racconto “La Côte Basque 1965” di Truman Capote: seduta al miglior tavolo del celebre ristorante newyorchese, l’elegante plutocratica Ina Coolbirt spiega al narratore che ordinare il complicatissimo soufflé Fürstenberg serve a buttarsi sul Cristal a stomaco vuoto, nell’eterna attesa del soufflé, e dunque a raggiungere un mirabile equilibrio etilico prima di toccare la forchetta ormai psichicamente sazie, di fatto non più bisognose di mangiare anche per via dell’acidità di stomaco scatenata dallo champagne. 

Si era ancora in quella stagione dei ristoranti dove tutti, dal proprietario al cuoco al cameriere, erano al servizio del cliente, cercando di assecondarne gusti e capricci. 

Negli anni Duemila, è invece esplosa l’era dello cheffismo. I clienti sono passati in second’ordine, più che altro comparse estatiche e paganti, mentre i cuochi sono diventati personaggi, star del mondo mediatico, artefici di una cucina inventiva al limite del cervellotico e ispirata (quasi sempre confusamente) all’arte contemporanea. Gli chef si sono trasformati in intellettuali di tendenza: inalberavano una filosofia (“la mia filosofia in cucina”) e te la volevano spiegare. I loro corpi non erano più rotondi a forza d’assaggiare piatti del menu, ma tutta quella loro cerebralità, le spericolate metamorfosi degli ingredienti, la filosofia sommata a estro artistico e posa da guru li avevano asciugati, resi magri e tonici. Soprattutto, erano golosi di riconoscimenti intellettuali e di vestiti forniti dagli stilisti, di arredi e stoviglie di design, in pratica di patenti o lasciapassare del buon gusto non solo gastronomico. Il cibo è diventato di moda (nel senso di marchi della moda), e la moda si è impossessata della rastremazione intellettuale del cibo, con un connubio di affari&interessi abbastanza saldo. Del resto, a chi appartengono i più celebri Château, i più grandi marchi di vino e champagne e superalcolici del mondo? Alle multinazionali della moda, che ora in aggiunta aprono bar, ristoranti, comprano pasticcerie, timbrano panettoni così come un tempo griffavano piastrelle e smalti per le unghie. Ma non è finita. È il bello del divenire, che accompagna le nostre vite. E qui torniamo ai magri e ai grassi, ossia all’avvento a mo’ di ciclone e supercella della cancel culture, del green washing, del Me Too, del body shaming.

Consideriamo che secondo gli ultimi dati FAO ci sono 735 milioni di persone che nel 2022 hanno sofferto la fame, mentre 2,4 miliardi esseri umani (cioè il 30% della popolazione mondiale) non hanno avuto accesso a una quantità o qualità adeguata di cibo. In pratica, mentre i diseredati muoiono di fame, i poveri muoiono di grasso perché nel mondo occidentale il cibo dozzinale è a disposizione ovunque, a ogni ora del giorno, e non è mai stato così a buon mercato. Costa meno della droga e per la nostra fragile psiche può trasformarsi in una droga. 

Un saggio di Sarah Chaney “Sono normale? Due secoli di ricerca ossessiva della norma” (Bollati Boringhieri) dimostra come l’ansia di normalità (tra cui quella di avere un corpo normale) sia frutto della nascita e del successo della scienza statistica. Prima del 1800, quando non esisteva, la parola “normale” non veniva associata alla sfera dei comportamenti e delle forme umane, era un termine della matematica che indicava l’angolo retto. Con l’individuazione di una media, e il tentativo degli statistici di isolarla anche nell’essere umano, in America del nord e in Europa è nata una scienza della normalità, che per due secoli abbiamo subìto e anche imposto, sulla base di nostri standard, anche a popolazioni non occidentali. Abbiamo valutato chiunque, persino gli abitanti della Papuasia, sulla base dei nostri standard sanitari, scolastici, intellettivi, sessuali, estetici e via elencando. Il saggio è illuminante, e ci spinge ad andare “al di là del normale”, a riconsiderare tutte le nostre certezze e anche a capire che il concetto di normalità è stato un formidabile strumento razzista: come concludeva un articolo della rivista di moda Harper’s Bazaar nel 1896, la snellezza delle americane bianche era una caratteristica positiva perché “la corpulenza, la pinguedine, la sovrabbondanza di carne” erano ritenute desiderabili soltanto “fra i selvaggi africani”.

Inevitabilmente, anche la moda sta oggi riconsiderando i propri canoni. Evita di escludere i grassi, i cicciotti, i diversi dallo standard che non era standard, ma un’idea obiettivamente non solo antidemocratica (e vabbè, la moda democratica non lo è per statuto), ma soprattutto antieconomica: una chiusura al mercato di nuovi ricchi che non appartengono alla cerchia dei magri caucasici. 

Così la cucina. Se oggi guardiamo con condiscendenza o anche simpatia al mondo degli stili fashion lanzichenecchi (per usare una recente fortunata definizione), ci è simpatico anche il crollo della moda degli chef filosofi, dei menu intellettualistici e lambiccati, in favore del cosiddetto comfort food che magari rende i corpi più rotondi ma anche più divertiti e disposti ad abbigliarsi con oggetti di moda adatti a forme morbide. Tornano a essere di tendenza le carbonare, le cacio e pepe, i fritti, i sartù, le lasagne, le pizze, torna in pratica la trattoria, il bistrò, la cucina che sai cos’è senza spiegazioni. Spariscono purtroppo le tovaglie, con la scusa che lavarle non è green (e giù a spruzzare detergenti sulle superfici dei tavoli), ma si torna a mangiare spensieratamente, con la certezza che troveremo abiti che ci rendano à la page anche se non ci è mai e poi mai entrata la 38. E nessuno ci insulterà più attribuendo connotazioni morali al nostro appetito e alla nostra taglia anche perché siamo entrati nell’era dei social. Infatti, come scrive il giornalista del New York Times Max Fischer in “La macchina del caos” (Linkiesta), gli algoritmi dei social “sfruttano l’attrazione del cervello umano per gli argomenti divisivi”, al fine di tenerci connessi sempre più a lungo. Il modello di business dei social è quello di strappare a morsi il nostro tempo libero o occupato (al lavoro, mentre portiamo il cane a passeggio o dovremmo sorvegliare i figli al parco giochi) e farci stare incollati alle piattaforme più tempo possibile, di giorno in giorno sempre un poco di più. Nessuna casa di moda, nessuno chef fighetto, nessuno che abbia a che vedere con il pubblico pagante vuole più rischiare che tutta questa popolazione connessa e pronta a scagliarsi contro una dichiarazione, una frase, un’intenzione gli si rivolti contro. Nessuno, pur pensandolo, direbbe più: “È una stronza frustrata perché grassa”.