Camilla Baresani

Sommario

La cucina: dalla fame alla sala hobby

- Dispensa - Storie di donne e di cibo - Cibo

Ricordate il mito della sala hobby? Probabilmente no, appartiene al cuore del secolo scorso, quando l’Italia viveva l’euforia di una continua crescita economica e gran parte dei suoi cittadini avevano la chiara sensazione di abitare il progresso.

In quel periodo ormai remoto, dalle parti del garage o della cantina, i mariti à la page trovavano il proprio onesto divertimento aggiustando, piallando, forgiando oggetti non sempre utili che però davano loro la sensazione di essere operosi, alacri e mascolini, aderenti al ruolo dell’homo faber. Queste sale hobby erano un trionfo di ganci e scaffali, di cassette degli attrezzi, di frese, seghe, presse, brugole, cacciaviti. Le donne non vi avevano accesso, ed era l’unico luogo dove un padre di famiglia potesse accrescere il mito della propria virilità senza darsi alle conquiste femminili, nel contempo difendendosi da bambini non sufficientemente disciplinati, dall’obbligo di conversazione, dalle recriminazioni femminili. Le mogli invece stavano in cucina, tra il lavello e il frigorifero, in quell’ambiente che oggi, cinquant’anni dopo, è divenuto la sala hobby unisex, un laboratorio da inventore domestico e non più il luogo della gestione quotidiana e ordinaria della vita familiare.

Quanto alle cucine moderne, quelle modulari piene di sportelli e di elettrodomestici, esordirono contemporaneamente alle sale hobby nella prima metà degli anni ’50, per raggiungere il colmo della popolarità – da allora mai incrinata -, durante gli anni ’60. A quei tempi, le ragazze italiane sognavano di sfuggire alla famiglia d’origine, normativa e opprimente, una sorta di centrale di divieti, grazie a un matrimonio e a una cucina componibile. Il futuro marito, l’uomo seducente, il padre dei figli a venire, l’impiegato, il rappresentante, l’operaio specializzato, il piccolo imprenditore sarebbe stato tenuto al lazo tramite una meravigliosa cucina improntata a quelle americane, come si vedevano al cinema e nelle illustrazioni delle riviste: cucine ampie, collocate al piano terra di casette su due piani, con vista sul praticello prospiciente la strada. Cucine da cui la trepida moglie, affaccendata a sminuzzare e creare aggregati cremosi con l’aiuto di un frullatore, scorgeva il marito tornare a casa alla guida dell’utilitaria di famiglia. Superfici di formica color pastello, sportelli che nascondevano preziosi doni di nozze, un frigorifero stipato di bibite effervescenti, di latte, di burro e di carne bovina, che ai tempi rappresentava il segno del benessere, della salute e della crescita. Altro che “una mela al giorno”: si sognava la fettina quotidiana e vent’anni prima del boom del filetto si viveva in un mondo di dadi (cioè carne concentrata) e di batticarne necessari per domare i tagli meno nobili. Altri tempi, altri sogni.

Abbiamo poi imparato – grazie anche a tanto cinema e tanta letteratura, oltre alle esperienze personali delle nostre madri e nonne – che dietro a quel sogno di benessere, di brasati, di bolliti, di scaloppine, di paillard si nascondeva l’insoddisfazione domestica, un virus che colpì quasi tutte le donne di quella generazione. L’abitazione stipata di alimenti, detersivi ed elettrodomestici ottenuti grazie ai soldi guadagnati ed elargiti dal marito, quasi una forma di ricatto morale, finì per creare noia, frustrazione e risentimento. Nel frattempo, mutavano le esigenze e gli orari del mondo del lavoro, e i mariti cominciavano a non tornare a casa per il pranzo: si fermavano nelle trattorie, nelle osterie, nei bar, nelle mense, nelle tavole calde, nelle latterie con cibi cotti, con ciò creandosi nuove occasioni di incontro e di flirt. Alle donne chiuse in casa non restava che cucinare per bambini, per amici dei bambini, per altre mamme. Sai che divertimento. Le giornate delle casalinghe si fecero un inferno di pulizia e detersivi, accudimento di prole, estensione delle insoddisfazioni dell’una all’altra tramite chiacchiere davanti alla scuola, dal parrucchiere e all’ora del tè. Le giornate di ripetitiva e faticosa casalinghitudine venivano sminuite dai mariti, che mostravano di ritenere la cura della casa e della famiglia una sorta di vacanza infinita. E quei mariti, nei pranzi lontano da casa, assaggiavano piatti diversi dalla cucina scontata e risparmiosa delle mogli e delle madri. La sera, durante la cena, si lanciavano in suggerimenti e magnificazioni delle pietanze assaggiate lontano da casa, finendo giocoforza per sfidare le consorti: fu proprio in quegli anni che si passò dal quadernetto liso delle ricette di mamma e di nonna all’acquisto di ricettari, che vennero man mano riempiti di pagine con foto e ricette strappate dai rotocalchi: piatti dai nomi francesi, piatti esotici benché italiani ma tipici di tradizioni regionali lontane e ingredienti poco conosciuti. Le casalinghe si trovarono così dibattute tra tentazioni di creatività e invece l’allettante consumo dei nuovi prodotti dell’industria alimentare, in vendita nei supermercati. Offrivano polenta precotta, cotechini da riscaldare a bagnomaria, prodotti assaggiati per la prima volta durante il viaggio di nozze (si poteva trovare la mozzarella anche a Sterzing Vipiteno e il gorgonzola con la goccia a Enna), senza dire dei formaggini, dei salumi in busta preaffettati, dei crackers, dei biscotti e dei preparati per torte e budini. Persino cucinare i dolci di casa divenne inutile: i bambini preferivano merendine industriali e gelati confezionati.

La pentola a pressione rese più semplici e veloci molte operazioni di cucina, mentre l’urbanizzazione progressiva concentrava le famiglie in case sempre più piccole. Infine, il boom delle lavastoviglie semplificò la vita degli esseri umani, divenendo l’oggetto più amato dalle casalinghe dopo la lavatrice. Negli anni ’80 la discussione classica delle famiglie divenne quella sull’arte di caricare la lavapiatti, e continua a esserlo tuttora.

Ingrassammo tutti: la disponibilità immensa di cibo, il boom dei supermercati, la moltiplicazione delle paninoteche e dei bar con cibi da scaldare al microonde, la sovrapproduzione dell’industria alimentare resero il cibo disponibile sempre e a ogni ora, a meno di non abitare in luoghi parossisticamente remoti. Ci si dimentica sempre che gli ultimi dieci anni, comunemente definiti “della Grande Crisi”, sono comunque segnati da un regime di consumi nettamente superiore a quello degli anni ’50, ’60 e persino dei ’70.

Il paradosso della contemporaneità è proprio questo: in Occidente non si muore di fame, anche i disoccupati hanno un problema di sovrappeso, il cibo di cattiva qualità costa meno di un pacchetto di sigarette, mentre lavorare è in molti casi più costoso che stare a casa a occuparsi dei consumi, dei contratti di telefoni ed energia, della spesa e della cucina. Quante (e quanti) di noi, nel tentativo di trovare un lavoro soddisfacente, il genere di lavoro per cui abbiamo studiato, finiscono per costare più di chi non fa nulla? Tempo fa ho ascoltato una battuta che mi ha illuminato. Un uomo ha chiesto all’amico, il cui lavoro aveva subito un vistoso calo, se comunque la moglie avesse ancora il suo lavoro di giornalista free lance. “No, non ce lo possiamo più permettere”. La scrittrice Alessandra Appiano ha coniato la definizione di “occupate a spese proprie”: lo siamo quando ci dedichiamo a un lavoro che produce spese più alte dell’infima e saltuaria retribuzione. Va da sé che molte di noi, ben lontane dall’incarnare il canone della casalinga frustrata come raccontato in Revolutionary Road di Richard Yates e nei quadretti domestici di Raymond Carver, hanno preferito tornare nella sala hobby, pardon, nella cucina. Hanno scelto di sviluppare la propria creatività e competenza anziché in occupazioni non adeguatamente retribuite, nell’arte contemporanea del cucinare: non più un ruolo femminile – una promessa che si trasforma in gabbia -, ma un’allettante attività creativa, tecnologica, culturale che costringe a competere con i maschi di casa per conquistare il comando dei fornelli e del budget per la spesa. Al punto che quasi viene un dubbio: non sarà che dietro a certe separazioni di coppie molto trendy si annidi una sommessa competizione culinaria, il desiderio di non dover più suddividere non tanto il letto, o il telecomando (di televisori ormai ce n’è uno per stanza), quanto il mini abbattitore, le cocotte di ghisa, il roner, l’impastatrice, il forno a vapore? La cucina è mia e me la gestisco io, è lo slogan – o il sogno – della contemporaneità.