C’è sempre qualcuno che ironizza sul costo dei pasti nei ristoranti più quotati e con più stelle Michelin. Cosa diavolo possono metterti nel piatto (e nel bicchiere) che giustifichi una spesa di 2/300 euro a testa, quando la trattoria sotto casa fa pagare 40 euro un pasto a base di ottimi tortellini/arrosti/torte? Eppure è da quelle cucine piene di chef e sous-chef e ragazzi della brigata; è da quei laboratori dove si sperimentano attrezzature per la conservazione e la cottura e il trattamento degli ingredienti; è da quei ristoranti dove in media c’è un addetto ben pagato ogni due persone servite a tavola (nella trattoria sotto casa invece il rapporto è di uno a dieci) che deriva la cucina del domani, saporita ma non bisunta, attenta alle cotture e alla selezione delle migliori materie prime, inventiva ed estrosa nelle tecniche e negli accostamenti pur rapportandosi sempre a una tradizione. Ossia la cucina che sperimenta ed elabora piatti che poi, negli anni, troveremo in versione semplificata nel ristorantino sotto casa, magari aperto da un ragazzo che ha lavorato in quelle brigate di celebri chef.
C’è sempre qualcuno che si chiede quanto guadagnino quei ristoranti così cari. Senz’altro meno della pizzeria sotto casa. Difficilmente si diventa ricchi con l’alta cucina; e, nei rarissimi casi in cui succede, non c’è tempo di godersi il risultato. Per raggiungere e mantenere uno standard così alto, non sono concesse distrazioni. Si lavora sempre, con orari durissimi, e senza mai smettere di innovare e migliorarsi. È necessario essere maniacali. Oltre alla pratica quotidiana del lavoro, alla concretezza del saper gestire i conti, è necessario avere un’attitudine visionaria e inventiva, che faccia la differenza con la massa degli aspiranti al vertice. Avete mai visto gli chef più celebri – quelli che magari hanno anche successo televisivo – paparazzati in barca con una modella o a un party come invitati e non come cuochi? No, devono lavorare.
Così, per raccontarvi cosa succede dove si creano i piatti più costosi e sontuosi del nostro paese, abbiamo messo il naso nella fabbrica delle stelle, nelle cucine dei sei ristoranti che hanno raggiunto il vertice del punteggio della Guida Michelin Italia, cioè le tre stelle, assegnate solo a ristoranti ritenuti “eccezionali”. La “Rossa”, che dal 1956 ha un’edizione italiana, assegna le stelle secondo i seguenti criteri: scelta dei prodotti, personalità dello chef espressa nei piatti, controllo delle cotture e dei sapori, rapporto qualità/prezzo, regolarità. Il punteggio massimo se lo aggiudicano i ristoranti che offrano non solo il vertice della qualità culinaria, ma anche una cantina adeguata (con un capitale consistente immobilizzato in bottiglie di pregio), un servizio con personale abbondante e molto qualificato, una mise en place e un ambiente elegante e ricercato, e magari abbiano anche qualche camera per fermarsi dopo il pasto sontuoso. Un ristorante con tre stelle deve offrire non la cucina di tutti i giorni, bensì alta cucina, cioè quella che secondo la tradizione occidentale è percepita come ricca, da giorno di festa e delle grandi occasioni. E allora servono materie prime non solo eccellenti, ma anche preziose, e piatti complessi, elaborati, inventivi. Ricordando che il compito di un grande cuoco non è tanto la presenza assidua in cucina, quanto l’elaborazione di un progetto gastronomico e la capacità di addestrare una brigata ai massimi livelli.
Ecco dunque i nostri magnifici sei, i ristoranti al vertice della Rossa.
“Al Sorriso”, Soriso (NO). Chef Luisa Valazza
tel. 0322 983228, www.alsorriso.it
Gran parte dei ristoranti di alto livello ha uno chef maschio. Per le donne è una vita fisicamente molto faticosa (le ore in piedi, il caldo, il peso delle pentole), e con orari che rendono quasi impossibile crescere figli. Impresa però più abbordabile se il ristorante è a gestione famigliare. Luisa Valazza, moglie di Angelo, il patron (“In un momento della mia vita per fortuna ho incontrato un ristoratore”), laureata in lettere alla cattolica di Milano, è entrata in cucina da autodidatta e ce l’ha fatta (“Avevo metodo nello studio e così mi sono applicata ai ricettari”). Il Sorriso è in un borgo collinare, pittoresco e di soli 700 abitanti. Un tempo luogo di villeggiatura di ricchi milanesi, ospita diverse dimore sontuose. Il ristorante ha una quarantina di posti. I clienti sono al 75% stranieri. In aumento i brasiliani, così come negli altri tristellati: hanno strappato ai russi la passione per le bottiglie più costose e i per i ristoranti più celebrati. La cucina, un po’ angusta rispetto a quelle dei concorrenti parigrado, è stipata di cibi in preparazione e di assistenti di brigata. I costi più alti, oltre a quelli per gli stipendi, sono per le materie prime. Per esempio, scampi e gamberi della migliore qualità (i “Sanremo”), che costano 58 euro al chilo. E i porcini che vedete nella foto, quella mattina erano stati pagati 50 euro al chilo. Molte verdure sono fornite da un eremita, Paco, che vive ai piedi del Mottarone. La ricerca dell’eccellenza delle materie prime è maniacale. Più di un piatto è memorabile. Uno per tutti: i “ravioli verdi della tradizione con formaggio Bettelmatt, erbe di montagna e burro d’alpeggio spumeggiante”. Dice Luisa Valazza: “Io non me le sono cercate queste tre stelle. Sono arrivate perché ho un carattere per cui non sono mai contenta di quello che faccio e cerco sempre di migliorare. È stata la mia ansia interna a farmi ottenere tre stelle”. E aggiunge: “Sono contenta perché questo è un lavoro che mi ha permesso di liberare quel lato artistico che è dentro di me e che diversamente, dietro una cattedra, non avrei avuto modo di esprimere”.
“da Vittorio”, Brusaporto (BG). Chef Enrico e Roberto Cerea
tel. 035 681024, www.davittorio.com
Una famigliona di mamma e cinque figli, impegnati coi relativi coniugi nell’entusiasmante e faticosa impresa di famiglia. Perché “da Vittorio”, oltre a essere un ristorante da 70 posti, è una macchina che produce banchetti, una residenza per feste fino a 300 persone, e una pasticceria (la “Cavour” a Bergamo alta). Occupa circa 80 dipendenti, come una fabbrica. La cucina del ristorante è grandissima, con piastre a induzione e fiamme, e la brigata è abituata a lavorare in sincronia perfetta. Ogni piatto, composto di molti elementi, viene confezionato al momento e va essere servito caldo, in contemporanea con quelli degli altri commensali. I cuochi lavorano simultaneamente su ogni piatto, magari in tre o quattro, in una lotta al secondo e al millimetro (non sono ammesse sbavature). Il ristorante, fondato da Vittorio, padre dei ragazzi Cerea, ha costruito la propria fama sulla cucina di pesce negli anni in cui per mangiarne bisognava allontanarsi dalla pianura e spingersi fino al mare. Il “gran fritto misto di crostacei, pesci, frutta e verdura” impressiona per ricchezza, bellezza della presentazione, e naturalmente bontà dell’esecuzione. Indimenticabile anche il “merluzzo nero d’Alaska laccato al miele, con fagioli di Spello e caldarroste”. Molti i piatti vegetariani, belli come composizioni pittoriche. Dice Enrico Cerea: “È un lavoro che ti prende e ti conquista. È come una droga. Non lo molli più. Però bisogna restare in cucina e non farsi incantare dalla fama. Si fa presto a perdere la mano”. Mentre lui cucina, gli ospiti godono la vista e la pace di un locale sontuoso alla maniera del lusso internazionale, sito in una vallata molto verde e priva di brutture edilizie.
Da Vittorio la carta dei vini non è più immortalata in quei libroni pesantissimi della tradizione, bensì contenuta nell’iPad. Il cliente sfoglia lo schermo, vede le etichette, compie ricerche per nome, annate, regione, nazione…
“Dal Pescatore”, Canneto sull’Oglio (MN). Chef Nadia e Giovanni Santini
tel. 0376 723001, www.dalpescatore.com
È il più vecchio tre stelle italiano, nel senso che le detiene (e conserva) dal 1996. L’attività, però, era iniziata nel 1930. Il ristorante si trova in una frazione di 36 abitanti, nel bel mezzo della campagna e della riserva naturale del Parco dell’Oglio. Un luogo decisamente rustico e naturale (c’è anche un grande orto, e l’edificio ha la bellezza dei vecchi cascinali della zona), però il ristorante è raffinato e di sobria ricchezza nella cura degli arredi interni. Una pista per l’atterraggio di elicotteri fa pensare a clienti ricchi, importanti e formali, ma l’atmosfera del locale è amichevole, rilassata, intima. Di tutti i tristellati è quello geograficamente più lontano da industrie, aeroporti, uffici, urbanizzazioni. Il luogo è bello, ma per portarvi da anni e con regolarità clienti gourmet e danarosi bisogna senz’altro avere lavorato con dedizione sulla qualità e sulla fama. In cucina, oltre alla brigata, ci sono tre generazioni: Nadia, una Santini acquisita, che ha portato il ristorante da buona trattoria alle tre stelle; Bruna, suocera di Nadia; e Giovanni, figlio e nipote. In sala, tutti gli altri Santini, cioè il marito di Nadia, Antonio, un altro figlio e le mogli dei ragazzi. Un totale di circa 25 addetti per una quarantina di posti. Stranamente, nessuno dei giovani Santini si è mai allontanato dall’azienda, se non per fare l’università e poi tornare alle origini, appendendo la laurea al chiodo. I piatti sono perlopiù creazioni di Nadia: “Gli uomini sono fantasiosi e cerebrali, le donne fanno una cucina umanistica,” dice. Qualunque cosa significhi, constatiamo che il risultato sono piatti in cui si trova un grande equilibrio tra tradizione e innovazione dietetica. Il “Cappello da prete di manzo al nebbiolo e polenta gialla Belgrano” e l’ “Anguilla del lago in carpione al profumo di arancia di Sicilia” sono riconoscibilissimi per la composizione, ma mai trovati prima con una simile leggerezza di esecuzione. “La fortuna di avere tre generazioni in cucina è che si sommano esperienze che derivano da momenti storici diversi. Questa è la miscela del nostro successo. Ma per fortuna là fuori c’è la campagna, e ci riporta con i piedi per terra”.
“Le Calandre”, Rubano (PD). Chef Massimiliano Alajmo
tel. 049 630303, www.alajmo.it
In cucina i ragazzi della brigata mangiano fusilli con le zucchine. Anche al Pescatore, da Vittorio e alla Pergola, arrivati al momento in cui a mangiare è chi cucina, avevamo notato che i cuochi preferiscono la pasta; le complicazioni, gli alimenti lussuosi e inventivi sono riservati ai clienti. 40 coperti e poco più di 20 addetti. Le Calandre è il “centro creativo” di Massimiliano Alajmo, che lascia al padre e al fratello il compito di occuparsi degli altri locali di famiglia. È lui l’enfant prodige, il trentasettenne che, grazie a una spiccata creatività (oltre a cucinare, dipinge, scrive, crea mobili) e alla tendenza a concettualizzare persino una patata lessa, ha portato il ristorante di famiglia alle tre stelle Michelin. “I costi dell’alta cucina sono elevatissimi: la formazione del personale, le attrezzature, e la ricerca, che è il banco di prova di qualsiasi preparazione. Non esiste il piatto perfetto fatto lì per lì: il nostro è un lavoro sartoriale, che richiede studio e sperimentazione. La semplicità è complessità risolta. Bisogna arrivare allo scioglimento degli aspetti più granulosi di un’idea”. Tutte queste riflessioni producono piatti all’insegna dell’esaltazione delle materie prime e dei loro aromi, dai sapori netti e mai pasticciati, dall’aspetto fantasioso e persino divertente. “Le aspettative di un ospite, quando entra da noi, sono sempre molto alte, e non tradirle è la cosa più difficile del nostro lavoro”. La “Primavera di verdure cotte a freddo con sorbetto di senape e aceto tradizionale” sembrerebbe una cosa da nulla e invece è da provare per credere. Ma non va perso nemmeno il piatto-firma, il famoso “Cappuccino di seppie al nero”. Naturalmente anche gli arredi (dai piatti ai tavoli), i materiali, i disegni alle pareti e quelli del menu sono frutto della pulsione creativa di Max Alajmo. Solo due lampadari all’ingresso, fatti con la pelle dello stoccafisso, provengono dalla Danimarca; tutto il resto è prodotto in casa. E il risultato è un locale moderno, arioso, quasi allegro, dove si mangiano piatti spettacolari prodotti nell’immensa cucina.
Enoteca Pinchiorri, Firenze. Chef Annie Fèolde
Tel. 055 242757, www.enotecapinchiorri.com
Annie Fèolde è la moglie di Giorgio Pinchiorri, l’uomo che ha costruito nei cunicoli sotto l’Enoteca, nel centro di Firenze, una delle cantine più lussuose, complete, spettacolari, ricche, sbalorditive del mondo. Mentre un addetto spolvera ogni dettaglio delle sontuose sale e salette, incluse le gambe delle poltrone, mentre in cucina la brigata condotta dai due primi chef Italo Bassi e Riccardo Monco sbuccia fave, tira pasta sfoglia, cuoce brodi d’ossa e verdure, prepara cioccolatini nella stanza refrigerata del cioccolato, Annie Fèolde, dominante, spiritosa, vivace, racconta come è stato che, arrivata a Firenze 39 anni fa per studiare l’italiano, è diventata la donna che ha datto tre stelle Michelin al centro Italia. Noto che è vestita in abito “civile”, con una camicia a fiori. “Se non sto più in cucina non vedo per quale motivo dovrei mascherarmi, no? Lo fanno già in tanti!”, sorride ironica, alludendo ai tanti chef che, data la linea alla cucina governandola con polso di ferro, si tengono però ormai lontani dai fornelli. Brasiliani e indiani i clienti più spendaccioni, mentre i suoi conterranei francesi “sono tirchi”. A dispetto dei prezzi, la clientela è perlopiù di giovani. Anche Annie Fèolde, come Luisa Valazza e Nadia Santini è un’autodidatta. Ha cominciato a cucinare studiando Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda.. “Le attrezzature possono aiutarci molto,” dice. “Penso spesso ai cuochi dei secoli scorsi e li compiango. Facevano una vita tremenda e morivano presto. L’altra faccia della medaglia di questa esplosione tecnologica è che si va verso una cucina da microonde, tutta impacchettata, sempre meno naturale”. E ancora: “Soltanto i McDonalds devono assomigliarsi: noi tre stelle siamo tutti diversi”. “Ravioli di melanzane affumicate con lingua di vitello brasata e basilico” e “Coda di rospo farcita di fegato grasso, con fagiolini e zenzero fritto” sono due piatti squisiti nel menu dell’Enoteca. “L’Italia, è l’unico paese con tre donne tre stelle. Le altre due sono una spagnola e una francese. Un bel primato!” afferma Annie, orgogliosa del suo paese acquisito.
La Pergola, Roma. Chef Heinz Beck
Tel. 06 35092152, www.romecavalieri.it/lapergola
Dalle grandi finestre dell’ultimo piano, in cima a Monte Mario, si vede tutta la città. Un vero spettacolo. Che si completa con quello della cucina. Perché Heinz Beck, con Massimiliano Alajmo, è il più visionario e innovativo dei grandi cuochi italiani tristellati. Anche lui tende a concettualizzare, ma in modo più scientifico e meno filosofico: “La scienza non ha limiti,” dice, con lo sguardo dei veggenti. E, dopo aver parlato a lungo di Internet, spiega con entusiasmo un suo studio su “sapori, consistenza dei fluidi e peso specifico” che gli è stato utile per creare un meraviglioso cubo tricolore fatto di salsa di pistacchio, mascarpone e lamponi su base di cioccolato. Heinz Beck è un cuoco tecnologico/telematico. E un salutista. Crea piatti sontuosi assicurandosi che possano “far bene anche ai malati” (far bene nel senso di divertirli, appagarli e non danneggiarli). I suoi celebri fagottelli con ripieno di carbonara sposano brillantemente novità e tradizione. Nel museo bavarese di Monaco c’è una stanza dedicata a papa Benedetto XVI e una a lui. “I due re di Roma sono tedeschi,” constata, tutto contento. È una specie di folletto. Ogni pochi minuti viene raggiunto da un assistente di brigata che gli fa assaggiare qualcosa, persino le fragole. “No, non va bene”, “È papposo”, “È troppo grasso”, sono alcuni dei verdetti. Raramente è soddisfatto. Vuole di più, ma con gentilezza, senza sbraitare. A occhio e croce, con l’Enoteca Pinchiorri, è il tristellato che deve avere i costi più alti. Il rapporto clienti/personale è uno a uno. La cucina è la più grande e la più tecnologica, l’unica senza fiamme, solo con piastre a induzione. Dettagli curatissimi. In sala c’è un carrello pieno di occhiali per ogni genere di difetto della vista, qualora il cliente li avesse dimenticati. Ama anzitutto la pasta: è l’unica cosa, assieme alle verdure, che può mangiare tutti i giorni senza stancarsi.
“Il mio piatto che preferisco? Quello che devo ancora fare,” risponde, senza pensarci un attimo.