Anziché “La verità, vi prego, sull’amore”, come nei celebri versi di Wystan Auden, tante volte bisognerebbe chiedere “la verità, vi prego, sul cioccolato”.
Come mai, in un mondo di consumatori sempre più avvertiti, con l’istituzione di una serie di marchi e normative che tracciano la filiera del vino, del formaggio, delle uova, dell’olio, della carne, del pesce e del caffè, e persino quelle del sale, non ci chiediamo quale sia la filiera dei cioccolatini, delle merendine, delle torte e dei gelati al cioccolato di cui siamo ghiotti? Sotto la generica dizione “cacao”, cosa si nasconde? Un po’ come se alla voce “pesce” nessuno si chiedesse se stia per mangiare una trota o una spigola, se quella trota o quella spigola siano allevate o pescate fuori dai vivai, e se siano decongelate oppure fresche.
Nel campo del cacao, a dire il vero, la disinformazione è tale che la maggior parte di noi non ha nemmeno idea di che faccia abbia la pianta del cacao e da dove provenga. Mentre un chicco di caffè l’abbiamo visto tutti – persino in forma di metaforica mosca dentro la sambuca –, una fava di cacao no. Per non dire della cabosse, il baccellone che contiene le fave, e della pianta del cacao. Anche io, per quanto abituata a guardare tutte le etichette dei prodotti in vendita e a chiedere sempre da dove provengano i cibi che mangio, sul cioccolato non mi ero mai fatta molte domande. Eppure è uno degli alimenti più diffusi e amati del mondo, nessuna religione lo vieta, né ci sono motivi etici che ne sconsiglino il consumo.
È dunque arrivato il momento di far nostra qualche informazione utile, che ci illustri cosa mettiamo in bocca quando assaggiamo una tavoletta di cioccolato.
Partiamo dall’origine storico-biologica del cacao. Le prime testimonianze di una conoscenza rudimentale delle fasi di produzione di “kakawa” risalgono al 1800 a. C., nell’America Centrale. Da allora, per centinaia di anni, la cioccolata è stata consumata in forma liquida. Una bevanda destinata alle classi sociali più elevate, che si trattasse di nobili aztechi o di damigelle di corte a Parigi. In Europa la cioccolata approdò nel 1544, al seguito dei conquistadores, come dono per il re di Spagna Filippo II. In Italia la sua diffusione avvenne principalmente attraverso la rete di monasteri e conventi degli ordini religiosi che facevano da collegamento tra il vecchio e il nuovo mondo. La cioccolata fu anche oggetto di un’importante disputa, che impegnò gran parte della letteratura teologica del tempo. Secondo le norme religiose, le bevande non interrompevano il digiuno. Ma la cioccolata, con le sue proprietà blandamente eccitanti, era da considerarsi nutriente o no? Berla durante un digiuno rituale significava infrangere le regole? Fior di studiosi si applicarono alla diatriba, dividendosi tra integralisti del digiuno e liberali del cioccolato. Finché si stabilì che liquidum non frangit jejunum, a patto che alla cioccolata non venissero aggiunti zucchero, vaniglia, cannella. Questa caretteristica “spuria” della cioccolata la rese molto ricercata tra i fedeli dei paesi cattolici, in particolare in Italia e Spagna.
Per l’invenzione del cioccolato solido, in barrette, bisognò arrivare al 1828, quando, grazie alle scoperte del chimico olandese Coenraad Johannes Van Houten, si compì la prima vera rivoluzione del mondo del cacao: da quel momento, fu possibile non solo realizzare cioccolato solido — barrette, praline, cioccolatini, uova — ma anche produrlo in larga scala e a bassi costi, rendendolo, per la prima volta, un prodotto alla portata di tutti. Una svolta epocale per il cacao, che diede il via alla sua diffusione di massa ma, per certi versi, anche al suo declino dal punto di vista qualitativo. Infatti, se il cacao approdato alla Corte di Spagna e utilizzato fino a metà Ottocento era quello della specie fine ed extrafine, cioè cacao Trinitario e Criollo, l’industrializzazione del processo produttivo spinse i produttori alla coltivazione di un ibrido di bassa qualità ma più resistente al clima e alle malattie, e molto produttivo: il Forastero, specie di cacao che oggi rappresenta il 92% della produzione mondiale. In pratica, quasi tutto il cioccolato che mangiamo è di qualità scadente, perché il Forastero è nettamente inferiore rispetto ai suddetti Trinitario (fine) e Criollo (extrafine). Ma i grandi produttori, trovando nel Forastero una pianta economicamente molto più redditizia, decisero sin da allora di sviluppare solo quella specie
Il Forastero è un cacao che ha tutte le peggiori caratteristiche della sua specie – amarezza, acidità e astringenza – e per questo viene sempre corretto con aromi e zucchero. Del resto, le tavolette di cioccolato, quelle in cui si apprezza di più la qualità del cacao, sono una minima parte della produzione rispetto all’universo del cioccolato fatto di praline, snack, torte, uova. In queste preparazioni troviamo solo tra l’1 e l’8 per cento di cacao, dunque non occorre che sia di una specie pregiata.
Altra cosa sono le tavolette di cioccolato fondente (soprattutto quelle con il 70% di cacao): qui, se desideriamo che gli aromi siano naturali e non addizionati,è fondamentale che la materia prima sia cacao fine ed extrafine. Alcune aziende commercializzano tavolette di aromaticissimo cacao Criollo coltivato in proprie piantagioni del Venezuela – paese che è il bengodi delle produzioni pregiate e un immenso vivaio naturale.
Va detto che la lavorazione del cacao, di qualsiasi cacao, può fare miracoli (e anche disastri). Partiamo dai miracoli: da un cacao pessimo si può creare un prodotto pieno di additivi e correttivi. Il consumatore meno avvertito, col palato stordito da zuccheri e aromi estranei al cioccolato, può pensare che la tavoletta, la merendina, la pralina che sgranocchia siano di qualità.
I disastri: una lavorazione malriuscita, macchinari vetusti, fermentazioni sbagliate, tostature imperfette sono in grado di rovinare il prodotto finale ottenuto da un buon cacao fine o extrafine.
In un mondo perfetto, in cui si mangia solo cioccolato perfetto, ogni singolo gradino della filiera produttiva verrebbe seguito passo passo: dalla messa in terra delle piante ai primi germogli, dalla raccolta e dalle fasi successive che si svolgono nella piantagione all’arrivo in fabbrica e alla realizzazione dell’involucro che riveste la tavoletta. Spesso, però, le fasi della produzione rimangono scollegate l’una dall’altra, senza una regia comune. Il gap più evidente è proprio quello tra la piantagione e la fabbrica. Le aziende produttrici non seguono quanto avviene nella fase della coltivazione, e comprano il cacao facendolo arrivare in sacchi negli stabilimenti dove viene poi lavorato.
Purtroppo le piantagioni sono nella quasi totalità dei casi gestite da proprietari che non hanno idea del prodotto che verrà realizzato con le loro fave. Né hanno una cultura agronomica e botanica adeguata. Si limitano a seguire le fasi della produzione senza innovazioni e senza l’interesse necessario per la materia genetica delle piante che coltivano.
Questa lacuna è soprattutto culturale. Sono ancora pochi i produttori di cioccolato che si rendono conto di quanta e quale sia la differenza, a livello gustativo, tra i vari tipi di cacao. E i consumatori hanno il palato abituato a zuccheri e additivi, quindi sono poco consapevoli e non premono per il miglioramento della qualità di ciò che acquistano.
Di fatto, solo le aziende che seguono tutto il ciclo, dalla piantagione alla fabbrica, sono in grado di fornire un prodotto eccellente, proprio come capita con il vino. I veri custodi della cultura del gusto, a ben vedere, dovrebbero essere i coltivatori. Con la possibilità che hanno di vivere a contatto diretto con le piante, di seguirle, curarle e poi coglierne i frutti, sono quelli che più di tutti si avvicinano al mistero del cacao e dovrebbero man mano decifrarne gli aromi.
Ma il cambiamento, nel mondo del cioccolato, arriverà dalle richieste dei consumatori. Quando, come capita con altri alimenti, cominceranno a essere più avvertiti, a leggere le etichette del cioccolato che acquistano, a chiedere che non sia solo una miscela di additivi e che sia prodotto con cacao fine ed extrafine, finiranno per favorire il ritorno alla coltivazione delle specie pregiate di cacao, specie che peraltro hanno una grandissima varietà aromatica, ancora tutta da esplorare.