Se in questi giorni festeggiate bevendo Franciacorta, brindate anche alla memoria Franco Ziliani, morto novantenne nella sua casa sulle sponde del lago d’Iseo il 26 dicembre, sei giorni dopo aver cenato allegramente con gli amici. Fino all’ultimo era stato un tipo frizzante non solo per propria natura ma anche per ciò che ci ha lasciato. Stiamo parlando dell’inventore del Franciacorta, un uomo costituito da un fortunato assemblaggio di talento, visionarietà, caratteraccio, ostinazione e incontri fatali.
Nato nel 1931 a Travagliato, paese della bassa bresciana dal famigerato clima subtropicale umido, era figlio e nipote di commercianti di vini sfusi. Un mondo lontano dal nostro, enologicamente parlando. Immaginate a quali intrugli si ricorreva in quei tempi remoti, quando il vino non era considerato un piacere del palato ma un alimento che doveva costar poco, per riempire lo stomaco e soprattutto la mente.
Un giorno, per festeggiare il Natale del ’53, papà Ziliani stappò una preziosa bottiglia di champagne. Erano gli anni della ripresa, e persino nei calvinistici animi padani sorgeva un desiderio di joie de vivre, almeno di tanto in tanto. Nel giovane Franco, che stava per diplomarsi alla scuola enologica di Alba, si accese la spia del desiderio. Spia che non smetterà più di lampeggiare. Da allora, tutta una vita di sogni, brame, lotte, voglia di bello e di buono.
Eccoci dunque all’incontro fatale, che cambierà la storia del vino italiano aggiungendogli un côté frizzante, e cambierà anche la storia di un territorio, la Franciacorta, preservandolo dagli orrori cementizi che hanno inghiottito il suolo padano.
Il non-conte Guido Berlucchi, gentiluomo di campagna, colto e di raffinata educazione estetizzante, discendente da una figlia naturale (poi riconosciuta) del conte Lana de’ Terzi, viveva nel magnifico Palazzo Lana nella zona collinare della Franciacorta, a ridosso del lago d’Iseo. Il palazzo cinquecentesco, che celava dieci metri più sotto un reticolo di fascinose cantine tardo seicentesche, era circondato da vigne che si spingevano fino a circondare il castello di Borgonato. Con quelle uve, Berlucchi produceva un vinaccio grezzo e torbido di cui era scontento, il Pinot del Castello. Ingaggia dunque il neodiplomato Ziliani che, benché avesse da poco iniziato a lavorare, si era già fatto una fama di esperto di nuove tecniche.
Era il 1955, la provincia di Brescia dove tutta questa storia si svolge viveva un boom imprenditoriale. Dopo i bombardamenti e la vita da sfollati, dopo che padri/mariti/figli non erano tornati dalla guerra, l’economia locale era ripartita a razzo. A spingerla, era soprattutto la nascente industria siderurgica, creata dai rotamat delle valli prealpine che circondano la città. E poi, oltre alle lavorazioni del ferro e dell’acciaio, c’erano il tessile, l’agricoltura e l’allevamento intensivi, l’edilizia.
È in quegli anni che iniziano a crearsi delle fortune, che si trova un lavoro per tutti, che inizia la fame di immigrati per riempire le fabbriche. È sempre in quegli anni che si inizia a inquinare in modo nefasto sopra e sotto il suolo, mentre il cemento pian piano si espande.
Ziliani spinge Berlucchi a cambiare tutto. Nel ’58, gli dice: “Facciamo lo champagne italiano”. E la strana coppia, un duo tipo “il conte e il contadino”, s’imbarca nell’avventura.
Nel suo impareggiabile Viaggio in Italia del 1957, Guido Piovene fa dire a un anonimo interlocutore bresciano: “La nostra provincia per oltre metà è montanara, per quasi un quarto collinare, per poco più di un quarto è piana. I caratteri ne risentono. Hanno un fondo aspro, chiuso. In buona parte noi bresciani discendiamo da agricoltori di una terra dura, difficile, com’era fino a tempi abbastanza recenti, pianura compresa. D’accordo che adesso è diventata ricca, ma dopo le bonifiche e le irrigazioni della fine dell’Ottocento. Solo allora si è popolata, vi sono sorte le cascine e vi si è fissato il bestiame.” E aggiunge: “Brescia è autarchica istintivamente, il grande principio è ‘voglio fare da solo’”. Ecco allora che in una porzione di quel quarto collinare, appunto la Franciacorta, Ziliani e Berlucchi decidono di farsi da soli lo champagne, rendendolo il petrolio dei bresciani, una risorsa del territorio, un pozzo non destinato a estinguersi. Diventano protagonisti dell’Italia che voleva vivere e migliorare, e in quel migliorare c’è anche il gusto di godersi la vita, il “lavoro, guadagno, spendo” diventato famoso nell’interpretazione commendatoresca di Guido Nicheli, declinato in forma però bresciana, meno smargiassa di quella milanese, senza il finale “pretendo”.
Dopo tentativi, piccoli fallimenti, nuove prove, ecco che nel 1961, mentre si costruisce il muro di Berlino, in Franciacorta inizia invece l’avventura dello champagne italiano. Nel 1965 nasce la Guido Berlucchi & C., con un terzo socio, l’assicuratore Giorgio Lanciani, tipico bresciano fissato con le belle auto, cui si deve l’invenzione delle etichette ovali, ancor oggi distintive del marchio (sino ad allora erano sempre quadrate). Seguirà uno straordinario impulso di tutto il territorio, grazie anche al lavoro di tanti altri eccellenti e ambiziosi produttori che, tralignando dalla vocazione bresciana all’industria pesante, dirottarono i propri investimenti nel vino spumante, dando all’enologia italiana il Franciacorta, una delle denominazioni più note d’Europa. Risultato di questa concentrazione di forze, è la conservazione del territorio. Se vi capitasse di fare un po’ di turismo in Franciacorta, vi accorgereste che vi si entra improvvisamente, come se vi fosse un cancello, un’oasi nel cuore industriale del Paese separata da quel mondo di autostrade, svincoli, bretelle rondò, capannoni, tralicci, parcheggi, totem pubblicitari, centri commerciali, villette su terrapieno che è diventato il territorio padano, cosi ben illustrato nell’Atlante dei classici padani di Filippo Minelli ed Emanuele Galesi, catalogo degli sgorbi che hanno consumato il paesaggio della pianura. E invece, appena varcato il cancello immaginario della Franciacorta, intesa come paesaggio e come vino, eccovi tra muretti di pietra, stradicciole tortuose accompagnate da filari di vite morbidamente allineati, ville settecentesche con annessa sontuosa cantina visitabile, castelli e borghi medievali, pievi romaniche, il paesaggio incontaminato di una grande torbiera, e infine lo specchio del lago d’Iseo.
Ma torniamo ai nostri baldi pionieri: Berlucchi, un tipo mite e assai timido, educa Ziliani al gusto della vita: bei viaggi, bei vestiti, bella musica, case, arredi, tavole, livree del personale… L’azienda cresce, le bottiglie prodotte (e vendute) si moltiplicano in modo esponenziale, tutta la Franciacorta cresce. È una vita presa a morsi: fatiche, viaggi, concretezza e lussi, il raffinarsi del gusto, la voglia di vivere alla grande come in un’interpretazione esistenziale del frizzare delle bollicine.
Ziliani, tra i primi, intuisce che bisogna imporsi anche negli Stati Uniti, e nell’85 costituisce la Berlucchi America Imports Corporation per evitare i famosi “3 steps”, i passaggi che triplicavano il prezzo delle bottiglie destinate a finite sui tavoli dei ristoranti di Manhattan. Affitta un grande ufficio nel celebre Singer Building, ma acquista gli arredi da Stile, un negozio di Brescia che aveva i migliori pezzi del design contemporaneo italiano. E fa fare, sempre a Brescia, una vetrata su misura per la divisione degli ambienti. Parsimonioso ma non tirchio (“Il denaro è frutto di una fatica”), viaggia avanti e indietro da New York in classe turistica, e quando qualche anno dopo si dismetteranno gli uffici di Manhattan, si riporta indietro tutto, la vetrata e i mobili, e oggi li trovate ancora nel suo ufficio di Palazzo Lana.
Anni più tardi, ormai settantacinquenne, sempre con la fissa di sfondare nel mercato americano, decide di fondare la Berlucchi Cile. Solo che compra terreni in una zona siccitosa, e l’investimento si rivela fallimentare. Non gli riuscirà di inondare gli States di spumante cileno, ma almeno ci ha provato, fino quasi all’ultimo.
Dopo la morte di Lanciani e Berlucchi, nel corso degli anni Ziliani aveva rilevato le quote di entrambi, fino a diventare il padrone assoluto della Guido Berlucchi. Nel 2017, decide di cedere il controllo dell’azienda ai tre figli avuti dalla moglie, Arturo, Cristina e Paolo, cresciuti con lui in azienda. Ma non è che regali loro le quote, macché. Come nelle intenzioni di plutocrati svedesi e americani, Ziliani non regala nulla. Vende. “Ho dato una lezione ai miei figli: si sono indebitati per ricomprare il gruppo dove già lavoravano. Impareranno ad amministrare con più attenzione, ora controllano ogni piccola spesa”, dichiara al Corriere della Sera. Se siete tra i molti patiti della serie Succession, Ziliani è il Logan Roy del vino. Decisionista, imperioso, mai diplomatico, egoista ma visionario, energetico, grande seduttore di donne ma anche di uomini (non in senso carnale, in questo secondo caso). L’altro giorno, durante il funerale, per celebrare il padre, Paolo Ziliani ha letto le parole di My way: “Ho vissuto una vita così piena / Ho viaggiato in lungo e in largo per ogni autostrada / E di più, molto di più di questo, l’ho fatto a modo mio”. E ancora: “Ho affrontato tutto e ho puntato alto e fatto a modo mio”. Ognuno dei presenti ha subito riconosciuto nei versi della canzone quello speciale tipo di uomo, cocciuto, testone e spiazzante che ha inventato non solo un vino ma un territorio.