Fino a qualche anno fa potevano ancora esserci ragazze che, affacciandosi alla vita adulta, sceglievano con convinzione di cercare un futuro da casalinga, cioè da moglie e madre che si occupa della cura del focolare e della gioia dei suoi familiari. Oggi, questa scelta suona come una rinuncia. La casalinga, come ci hanno insegnato decenni di cinema e di letteratura, è una donna votata all’insoddisfazione, alle corna (perpetrate e subite), alla mancanza d’identità e di ruolo sociale, oltre alla sindrome da nido vuoto, l’alcolismo, la grassezza incombente e altre rimarchevoli catastrofi. La povera April, protagonista di Revolutionary Road (romanzo di Peter Yates e film di Sam Mendes) annega nella frustrazione più nera la sua mancata carriera di attrice, sacrificata per seguire la più promettente carriera del marito, prendendosi cura di lui e della prole. In televisione ricordiamo il trionfo del serial Casalinghe disperate. Il modello di una delle protagoniste, la perfezionista ossessiva Bree, risale addirittura al 1959. Lo troviamo in Mrs. Bridge, agghiacciante romanzo di Evan S. Connel che ci spiegò una volta per tutte (non fossero bastati i moniti di madri e nonne) l’orrore quotidiano di un’esemplare esistenza da massaia. In una borghesissima villettopoli americana, Connell ambienta l’opaco trantran di una famigliola gestita da una signora perfettina, una di quelle donne programmate per essere mogli e madri e gestire al meglio il decoro famigliare. Come in un susseguirsi di illustrazioni pubblicitarie anni ’50, ci scorre sotto gli occhi la vita di una donna impeccabile anche nella finzione, piena di sorrisi posticci dietro i quali pulsano angoscia, senso del vuoto, ansia di saper vivere senza dar mostra – mai – di eventuali incrinature.
In definitiva, la narrativa è tutta contro le casalinghe. Ne abbiamo un esempio italiano: lo scrittore Alberto Arbasino sosteneva di aver coniato il termine “casalinga di Voghera” per evocare l’epitome del buon senso lombardo, che invece molti intesero come critica alla figura stereotipata della donnina rispettabile, poco scolarizzata, marginalizzata in un’oscura cittadina di provincia. Un gruppo di scaltre casalinghe vogheresi ha però approfittato del successo di questa definizione per creare, a metà anni Novanta, un’associazione che esprimesse il vigore del ruolo, e la necessità che qualcuno ancora lo eserciti.
Va detto che oggi questo ruolo di casalinga andrebbe ridefinito. La donna (o l’uomo, come nei paesi nordici, dove a far carriera è lei, mentre lui resta a casa a passare l’aspirapolvere e scaldare biberon), la donna che si occupa della famiglia è ormai una “house manager”. Deve slalomare tra contratti di fornitori di telefonia mobile, fissa, luce e gas. Deve scegliere pacchetti vantaggiosi che offrano anche serie televisive e canali a pagamento, deve essere consapevole di pesticidi, diserbanti, mercurio e fattori di inquinamento del cibo, dell’aria, del mobilio. Deve tenersi informata su visite, scadenze, aumenti, offerte, divieti: la lettura del giornale, la difesa della privacy (contro le telefonate trappola e i virus di telefoni e computer), il calcolo dei risparmi incrociati… tutto questo è diventato il sofisticato campo di battaglia della casalinga contemporanea. Non c’è più solo da cucinare e tener pulito, c’è da slalomare tra le mille opportunità e trappole della civiltà contemporanea. Per essere una casalinga consapevole ed eefficiente, manca ormai solo uno specifico corso di laurea: ci si diploma in tutto, ce ne sarebbe bisogno anche per esercitare il mestiere più antico del mondo (e questo è indubbiamente più antico della prostituzione)