Un tempo, parlare insistentemente di qualità del cibo era prerogativa dei gourmet benestanti. All’opposto del loro mondo godurioso c’era chi di cibo non ne aveva abbastanza, e difatti lo spauracchio della fame – per solidarietà o per paura – entrava nell’educazione di tutti noi. Più tardi, verso gli anni ’80 del Novecento, il benessere della classe media si era diffuso a tal punto anche nel nostro Paese, che abbiamo cominciato a parlare ossessivamente di diete e forma fisica. La moda imponeva di essere magri, l’abbondanza di cibo e di ristoranti spingeva a diventare grassi. Verso il 2000, la nascita della nuova cucina italiana ha dato vita al racconto iperbolico delle gesta degli chef. Erano i nuovi eroi popolari, sui giornali entravano pagine e pagine di temi legati al cibo e ai ristoranti di lusso, i canali televisivi mandavano in onda ogni sorta di programmi gastronomici, da quelli popolari per chi aspira a preparare pranzi casalinghi meno maldestri fino alle competizioni acerrime di debuttanti giudicati da tirannici chef stellati. Nasceva al contempo il fenomeno dei food blogger, oggi già superati dai food influencer, cioè da persone con decine di migliaia di follower che postano su Instagram fotografie di quello che mangiano, e dove lo mangiano, creando tendenze e clientele aspirazionali. Questo almeno sperano i committenti degli influencer.
Sono elementi di sociologia dell’alimentazione, cui andrebbe aggiunto che il cibo è diventato un nuovo modo di far politica. Se negli anni ’70 si andava a spasso con “il manifesto” in tasca per far vedere che si era di sinistra, ora si va al ristorante e si pianta una grana se non si trova un menu vegano o a chilometro zero o rispettoso di allergie e fobie. Ci si scontra in modo acerrimo per le politiche alimentari, si smascherano frodi perpetrate da industrie e artigiani, si denunciano le forme di schiavismo agricolo, si fanno incursioni contro gli allevamenti intensivi, ci preoccupa dei veleni contenuti nei diserbanti. Cospirare, indagare, partecipare, prendere posizione in cucina è di tendenza, così come lo è medicalizzare i consumi alimentari.
Ecco dunque alcune delle fazioni che si scontrano nel campo di battaglia delle tavole imbandite, degli scaffali dei supermercati, degli studi di dietologi e nutrizionisti.
I carnivori: indifferenti versus primitivisti.
Nel frammentato gruppo dei carnivori troviamo anzitutto la maggioranza degli indifferenti, cioè di quelli che non si pongono domande né sulla provenienza della carne né sulle conseguenze sulla propria salute. Da questo gruppo più grossolano si staccano i salutisti: si nutrono esclusivamente di carne bianca, meno dannosa per la salute del colon e meno grassa di quella di manzo. Altri, invece, si preoccupano delle condizioni degli animali prima della macellazione: sono gourmet che cercano carne di qualità proveniente da allevamenti certificati e non intensivi. Sono golosi di polli, manzi, maiali, capretti, agnelli allevati al pascolo o quantomeno non schiacciati l’uno addosso all’altro senza mai potersi muovere. Non è finita: ci sono carnivori primitivistiche mangiano solo animali cacciati, non provenienti da allevamenti, e altri ancora più estremi che ritengono di dover essere loro stessi i neo-cavernicoli: chi non ha lo stomaco di tirare il collo a una gallina o sparare a un cinghiale, tanto vale che rinunci alla carne. Questa concezione virile del rapporto con le proteine animali è una forma di autolimitazione del consumo e, forse, di rispetto per le condizioni di vita di esseri senzienti ancorché commestibili.
Gli animalisti: vegetariani versus vegani
Ci sono persone che, prima di diventare vegetariane, passano dalla fase intermedia del pescetarianesimo. Dal momento che in ognuno di noi c’è un bambino cresciuto a suon di animali umanizzati dei cartoni di Walt Disney, può straziarci pensare al sacrificio di un maialino o di un agnello da latte tenero e innocente. Invece, per qualche strano motivo, pensiamo che i pesci abbiano un’inesistente soglia del dolore, nessuno si chiede come sia morire arpionati o soffocati sul ponte di un peschereccio. Ma, prima o poi, il pescetariano, si converte e diviene vegetariano, vale a dire che dopo aver smesso la carne smette anche il pesce ma continua a nutrirsi di uova e latticini. Tuttavia, per i vegani, il vegetarianesimo è una forma ipocrita e blanda di rispetto dei diritti degli animali: vengono sfruttati per produrre uova e latte, e in particolare la vita delle mucche da latte è senza dubbio la peggiore forma di esistenza al mondo. Partoriscono nel dolore, gli sottraggono i figli, passano il tempo a venire munte. La giornata dei vegani, che non fanno entrare nel proprio corpo “nulla che abbia una madre”, è particolarmente impegnativa: richiede infinite ore dedicate alla cucina e al bilanciamento di proteine vegetali. La bibbia di vegetariani e vegani è il libro di Jonathan Safran Foer, Se niente importa. Una volta, parlando con una signora che l’aveva appena letto e ne era rimasta fortemente impressionata, le chiesi se dunque fosse diventata vegetariana. Mi stava mostrando le sue botti di aceto balsamico, a Spilamberto, in provincia di Modena. Rispose guardandosi la punta dei piedi: “Ci ho provato, ma non riesco a rinunciare ai tortellini”. La farcia del piatto identitario dell’Emilia Romagna aveva assassinato le sue migliori intenzioni.
Questione di distanze: chilometro zero versus giro del mondo
“Chilometro zero” è lo slogan alimentare più fortunato degli ultimi anni. Nulla ha colpito con altrettanto vigore la fantasia dei consumatori. Nutrirsi solo di alimenti allevati o coltivati nella propria zona. Va da sé che un campano o un pugliese rispettosi del regime chilometricamente corretto se la passano benissimo, mentre chi vive in zone di sassi e montagna ha poco da gioire. Tuttavia, la storia dell’umanità è fatta di scambi di prodotti alimentari e oggi non esisterebbe la dieta mediterranea se nei secoli scorsi non ci fossero stati dei commercianti che importavano quei pomodori, patate, peperoni, melanzane, agrumi, che poi abbiamo provato con successo a coltivare sul nostro territorio. Inoltre, a rigor di logica, un patito del Km O, dovrebbe deprecare l’esportazione di prodotti alimentari italiani, dal grana alla pasta, con grave nocumento del già disastrato Pil italiano. Ai localisti che mangiano solo ortaggi coltivati dal vicino, e agli internazionalisti che bramano prodotti esotici, si possono aggiungere gli stagionalisti (mai pomodori freschi d’inverno) e i capricciosi(ciliege cilene a dicembre), nonché gli archeofoodisti, sostenitori di antiche ricette cucinate con ingredienti locali (per esempio, il garum) e gli innovativi, che ogni pochi mesi cambiano miti culinari, e ultimamente vorrebbero mangiare solo la feijoada dell’ennesimo astro nascente creato dai foodies, Alberto Landgraf dell’Oteque di Rio de Janeiro.
Burocrazia alimentare: ortoressici versus junkfoodisti
L’ortoressico ha un’attenzione spasmodica (o addirittura abnorme) al rispetto delle norme dietetiche. Il lievito e il glutine gli gonfiano la pancia o scatenano reazioni allergiche quasi mortali. I funghi sono sempre un poco allucinogeni. È spesso allergico anche all’aglio. Per non dire dei frutti di bosco, dei crostacei, del lattosio e della frutta secca. Persino la buccia del pomodoro provoca acidità, per non dire dell’insalata cruda, che rende gonfi. Queste persone sono una spina nel fianco dei ristoranti contemporanei, che per reggere alle montanti richieste degli allergici ortoressici hanno dovuto adeguare i propri menu, separare taglieri e coltelli, porre attenzione maniacale alla eventuale contaminazione degli alimenti. Gli ortoressici sono tuttavia beniamini della fascia alta dell’industria alimentare, che per loro ha studiato prodotti ben più costosi della norma. Dall’altro canto, ci sono i junkfoodisti, o mangiatori di schifezze, consumatori di bibite dolcificate e gassate, risotti in busta, paste già condite e precotte, pizze surgelate, spume e mousse, glassa di balsamico, formaggi spalmabili prodotti da multinazionali… Nessuno di loro, per principio, dedica un secondo alla lettura delle etichette dei prodotti alimentari industriali. Quando poi ingrassano troppo e decidono di mettersi a dieta, i junkfoodisti divengono clienti (e spesso prede), tal quali gli ortoressici, di dietologi e nutrizionisti. Le due categorie, in lotta per colpa di una legislazione a dir poco opaca, si distinguono perché gli uni sono laureati in Medicina e specializzati in Scienza dell’alimentazione, gli altri invece in Biologia, quando va bene con diploma in Scienze della nutrizione. Tuttavia, si definiscono nutrizionisti anche personal trainer, giornalisti, fisioterapisti, psicologi che hanno frequentato un qualsiasi corso telematico in materie legate alla nutrizione.
Scienziati in cucina: ogiemmisti versus biologici.
L’oncologo Umberto Veronesi riteneva che la genetica applicata all’agricoltura rappresentasse un progresso nel campo alimentare e anche sanitario, mentre la lotta all’OGM era solo una questione di ignoranza scientifica. Nel 2000, per opporsi alla sua presa di posizione, un gruppo di manifestanti lo accolse con cartelli che recitavano “Veronesi assassino”. Un paradosso, per l’uomo che aveva salvato tante donne dalla morte per cancro. Sono passati vent’anni, Umberto Veronesi non è più tra noi, eppure il dibattito rimane acceso, scottante. Biologico o organico sono diventate le parole d’ordine del consumatore avveduto. Cultori della biodiversità contro fautori del miglioramento delle proprietà nutrizionali dei prodotti OGM; utilizzatori di pesticidi e concimi chimici contro fautori della lotta integrata ai parassiti; amanti del gorgonzola contro terrorizzati dalle micotossine… Su queste incertezze che accendono gli animi delle minoranze più informate, prosperano i nuovi supermercati dedicati ai prodotti biologici, mentre la prestigiosa Scuola Sant’Anna di Pisa fa uscire dai suoi laboratori una nuova specie di pomodori dalla buccia nera, assolutamente non OGM ma con caratteristiche nutraceutiche (sincrasi di nutrizione e farmaceutico), cioè con fortissimo potere antiossidante. La confusione domina sugli scaffali dei supermercati, nelle cucine e sui palati.
Ritorno all’età della pietra: crudisti versus cottisti
Nel saggio L’intelligenza del fuoco, lo studioso dei primati Richard Wrangam fa risalire l’evoluzione della specie umana all’invenzione della cottura. Saremmo ancora scimmie, se avessimo continuato a nutrirci di animali crudi da spolpare con i denti: “Non siamo noi ad avere inventato il fuoco, ma è il fuoco ad avere inventato noi”, è la tesi dello studioso. Il cibo cotto è eliminazione dei parassiti, è mutazione fisiognomica (denti più piccoli, mascelle meno prognatiche), ed è anche arte culinaria. Ma contro i cottisti crescono i sostenitori del regime alimentare crudista. La moda del raw (crudo) food dilaga in California, e ad alcuni pare il colmo della salute naturista. Preserva gli elementi anti-aging degli alimenti, e sazia più dei cibi cotti. Per i crudisti nulla deve passare da un fornello, ed è invece consentita l’essicazione a temperature inferiori ai 42 gradi, che mantiene inalterate le proprietà nutritive. Esistono poi crudisti non vegetariani: sono i cultori della dieta paleolitica, che mangiano solo frutta, verdura, carne, pesce, uova, noci e semi non cotti. Soprattutto tra i postadolescenti non mancano estremisti del sushi e del poke: per loro, California rolls, nigiri e bowl di pesce marinato sono la nuova pizza.
Parla come mangi: populisti versus schizzinosi
In Miti d’oggi, Roland Barthes si occupa anche del vino: “per i francesi bevanda-totem, al pari del latte della mucca olandese o del tè della famiglia reale inglese”. Il vino gli interessa come mito, cioè come fenomeno di consumo diffuso, nelle sue sfaccettature. Barthes identifica due tipi di bevitori di vino, con radicale divergenza di scopi: chi lo fa per avvicinarsi a una “virilità naturale” e chi invece va in cerca di “una qualificazione”. Beoni da osteria, pronti a menar le mani e conquistare donne anche senza il loro consenso, contro arrampicatori sociali che attraverso un’ostentata sapienza enologica cercano una legittimazione upper class. Cinquant’anni dopo quel saggio, le cose non sono cambiate. Succede col vino e succede col cibo. Per esempio, abbiamo avuto un personaggio televisivo di gran successo, il trucibaldo populista Chef Rubio, che ha conquistato un esercito di fan con l’estasi del cibo per camionisti. Suo seguace ed epigono, il Segretario del partito Lega Nord, Matteo Salvini, che, in cerca di consensi e forse per gusto proprio, si è esibito sui social mentre addentava cibi che ai cosiddetti gastro-fighetti, in pratica i radical chic del cibo, facevano orrore. D’altro canto, l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi, poi Segretario del PD e ora del minoritario partito Italia Viva, certamente più schizzinoso, ha mostrato di gradire la cucina e la compagnia del celebrato chef italiano Massimo Bottura, e ha fatto ricorso ai consigli e al supporto di Oscar Farinetti, imprenditore e missionario del cibo italiano di qualità.