Camilla Baresani

Sommario

CARLO CRACCO – La cucina, come l’arte, ha bisogno di coraggio

- Grazia - Interviste

Dalla notte dei tempi cucina e arte si nutrono di suggestioni reciproche. Uno scambio continuo tra quello che mangiamo e le arti: letteratura, pittura, scultura, fotografia, teatro, cinema e musica. Per non fare l’immane riassunto di questo proficuo intreccio, restringiamo il racconto all’Italia, e agli ultimi 50 anni. Allora va detto che il cuoco che il primo chef a introdurre l’arte contemporanea in cucina è stato Gualtiero Marchesi. Con lui la disposizione del cibo nel piatto da casuale diventa una forma di pittura astratta. I gourmet ricordano sicuramente “Riso oro e zafferano”, una delle creazioni che hanno fatto la storia della ristorazione italiana, per cui Marchesi ottenne dal Tribunale di Milano che gli fosse riconosciuto il diritto d’autore, come con le opere degli scrittori. Un altro suo piatto famosissimo è stato il “Dripping” di pesce, realizzato con la tecnica dell’Action Painting di Jackson Pollock. Il “Foie gras tartufato”, era invece ispirato a Lucio Fontana. Insomma, Marchesi oltre ad aver innovato e anzi ricreato i fondamenti della cucina italiana, ha introdotto l’arte astratta nei piatti. Uno dei suoi principali allievi è stato Carlo Cracco. Dopo 4 anni da Marchesi, Cracco ha continuato la formazione in altri celebri ristoranti, fino ad aprirne uno proprio.

Anche fra gli chef più famosi c’è chi percorre sentieri più consueti, e chi inventa, trasforma. Lei appartiene al secondo gruppo. Ha sempre avuto una sensibilità creativa?

In realtà mi è arrivata da Marchesi. Avevo 20 anni, ero come un tocco di legno buttato lì, e Marchesi mi ha aperto la testa, l’immaginazione. All’inizio mi sono sentito spaesato perché ho realizzato che il mondo della cucina non era solo prendere una padella e buttarla sul fuoco, ma dietro c’era pensiero, cultura, musica, arte. Un estro dovuto a una formazione completa. E questo al di là dei piatti, di cui si può dire mi piace, non mi piace, è buono, buonissimo, eccezionale, così così. Perché Marchesi è stato l’unico che a quei tempi, tra gli anni Settanta e Ottanta, ha osato rompere gli schemi negli accostamenti e nella disposizione sul piatto. Ha cambiato le regole del gioco. A un certo punto avrebbe anche potuto sedersi sugli allori e nessuno avrebbe obiettato. Invece ha continuato a essere alla ricerca e mettersi in discussione.

Quindi, per lei, la cucina è stata anche un fattore di crescita e consapevolezza culturale?

Sì, perché non era solo dar da mangiare, ma anche tutto quello che c’era intorno. Era una crescita culturale profonda: non si fermava alla ricetta di mia nonna o di tua nonna, ma cercava di cogliere lo spirito del tempo . La cucina di Marchesi era ipermoderna, forse addirittura troppo per l’epoca. Era concettuale ed estetica. Un pugno nello stomaco rispetto poi a tutto quello che c’era all’epoca, ossia una cucina esecutiva, in molti casi becera.

Oltre alla formazione creativa di Marchesi, nella sua carriera ha contato scegliere di lavorare a Milano, invece magari di tornare in Veneto, dov’era nato, e aprire là un ristorante?

Milano e Marchesi sono per me la stessa cosa. In altre città non sarebbe stato così. Milano è un modo di vivere, che a volte poi ti esaspera e non controlli più, però il concetto di quello che ti forma in questa città è anche quello più nobile: se tu sei bravo riesci ad arrivare e ad affermarti. Però non ti basta, perché bisogna migliorare e arrivano continuamente cose nuove. Devi essere sempre sul pezzo.

Oggi anche lei si sente un maestro?

Non mi piace esserlo, e lo faccio a fatica. Mi sembra di avere un fardello sulle spalle, invece vorrei essere molto più leggero e libero.

Lei ha trasferito il suo ristorante nella Galleria Vittorio Emanuele di Milano. È stata una scelta che molti vedevano come arrischiata.

Oggi la Galleria è diventata uno dei punti più turistici della città. È un luogo unico, un tempo era triste, fané, oggi ci sono negozi bellissimi.

La cucina è un’esperienza anche visiva, un viaggio nel bello e nelle risonanze che ci procura. E per i suoi ristoranti, quello in Galleria e quello di Portofino, lei ha ingaggiato lo studio d’architettura Peregalli, uno dei più esclusivi e forse anche dei più costosi.

Il ristorante di Portofino, che ho da 4 anni, è stupendo, veramente bello. Ma bello non perché è bello in sé, bensì perché è fedele al luogo. Sembra che sia sempre stato lì, un po’ come qui, in Galleria, dove abbiamo aperto da 6 anni. Il lavoro di Laura Sartori e Roberto Peregalli lo riconosci e nel tempo si valorizza. Le persone che entrano la prima volta sono stupite, c’è un’aria da grande locale francese.

Il tema della ecosostenibilità è arrivato in cucina. Il concetto contemporaneo di bellezza è anche legato al biologico. Subito prima del Covid lei ha acquistato una azienda agricola a Sant’Arcangelo di Romagna, nei luoghi d’origine di sua moglie Rosa Fanti. Lo ha fatto per aggiungere un tassello al design del “mondo Cracco”?

È un’azienda di 20 ettari. Produciamo olio per i nostri ristoranti, frutta e prodotti dell’orto. E poi vino di tutti i vitigni tipici: Sangiovese, Trebbiano, Albana e Rebola. Abbiamo fatto una carciofaia che adesso sta andando molto bene, con quasi 400 piante. Raccogliere i carciofi è bellissimo. E riesco ad arrivare a volte anche al 50% delle verdure di cui ho bisogno per il ristorante di Milano. E l’azienda è certificata bio.

Per lei, che non viene da una famiglia contadina, la cura della campagna è stata una scoperta e forse anche un modo per compensare lo stress del lavoro del ristorante?

Il lavoro del ristorante non è sempre semplice. Non che sia pesante, perché mi piace ancora. Diventerebbe pesante solo nel momento in cui non riuscissi a fare quello che voglio. Però la campagna per me è un modo per ritrovare un po’ di aria buona, un po’ di relax. Quando sono là sto da Dio. L’abbiamo presa che era semi-abbandonata, per ridarle vita. Nella tenuta ci sono tre case, dove vogliamo creare un agriturismo.

La affaticano gli orari del ristorante? Le giornate sono infinite.

L’orario per me è un’abitudine, è solamente una cosa convenzionale, come il sole e la luna.

Però è pesante anche per la vita familiare.

Se hai la fortuna di trovare una persona che ti è alleata e non rompe le scatole… Io ce l’ho. Ho dovuto cambiare, però diciamo che con Rosa, mia moglie, sono stato fortunato.

Anche grazie alla televisione, lei ha una grandissima riconoscibilità, che però è quella che poi attira gli odiatori. Come prende le critiche, che, per esempio quando ha proposto la sua pizza, sono state anche feroci?

Sono diventato abbastanza maturo da riuscire a controllare i miei stati d’animo. Sono come l’olio, scivolo via. Difficilmente la cattiveria attecchisce su di me, ma non perché sia insensibile. Cerco di vedere sempre il lato positivo e se ho sbagliato qualcosa lo capisco. Vedo che la maggior parte delle volte le critiche sono pura cattiveria o ignoranza, e allora penso che ci stia, nel senso che poteva capitarmi anche di peggio. Voglio divertirmi, voglio stare bene. Il giorno in cui questo lavoro mi diventerà pesante, non mi farà felice e contento, io lo mollo. Il mio lavoro, tra l’altro è anche un modo per incontrare persone molto interessanti. Ma quello si riesce a cogliere solo quando sei in linea, sei attivo. Perché quando sei sulla parte passiva, non vedi niente, ti si annebbia tutto. Vedi solamente la sopravvivenza.

La televisione, e lei ne ha fatta molta, più dà o più toglie?

Non posso dire che ne abbia fatta tanta. Ho fatto sei edizioni di MasterChef. C’è chi ne ha fatte 20. Poi anche Hell’s Kitchen, ma era in contemporanea. E poi dal 2021 Dinner Club. Quello me lo tengo, è una cosa che adoro, perché racconta la cucina e il suo territorio. Non c’è una gara, il dover fare il faccione cattivo, buono, tutta quella roba lì che mi è andata bene per 6 anni, ma alla fine mi aveva stufato.

Che rapporto ha con l’arte e con il design?

A me piace l’artigianalità. Mentre l’arte è artigianale, il design è industriale. Vede questo quadro? È di Enrico Baj, è un’opera dei suoi inizi. Amo vedere come nasce e poi si afferma un artista. Capire il percorso di Mario Schifano, per esempio, scegliere il periodo dell’opera di un artista in cui si vede la trasformazione della sua arte.

Immagino che quando gira per le case con il catering veda anche molte opere d’arte, e alla fine questo contribuisce a creare un gusto.

Sì, serve a farsi un gusto e serve anche a capire il gusto di chi conosci. Perché a volte ho visto delle cose pazzesche in case a cui non avrei dato una lira, e viceversa ho visto opere banali, ovvie in case in cui mi sarei aspettato qualcosa di più.

Dalle opere d’arte appese alle pareti, ai piatti. Quanto conta l’estetica e quanto il cibo? Metà e metà?

L’estetica per me è fondamentale. Ma la cosa più fondamentale per me è l’armonia. Delle consistenze, dei sapori, della disposizione. L’armonia degli elementi e degli accostamenti. Qui in Galleria abbiamo studiato come rendere armonico un insieme che va dal menu al tavolino, al tavolo, alla tovaglia, alla seduta al tovagliolo, al piatto, alla posata, al bicchiere.

Cosa le dà fastidio quando va negli altri ristoranti?

Non mi piace l’accoglienza standardizzata. Bisogna guardare chi si ha di fronte e riconoscerlo. Niente tiritera, non mi devi convincere, sono già entrato.  

E in trattoria?

Quando non ti salutano. So che è difficile, perché magari c’è un turnover di clienti pazzesco, ma salutate sempre quando un cliente. Buongiorno, come va e, quando il cliente va via, arrivederci grazie con un sorriso. Poi detesto il menù di plastica, è proprio irritante perché dove mangi la plastica non deve esserci nel modo più assoluto.

Comunque io amo l’atmosfera, l’accoglienza che trovo in un locale è la prima cosa che mi colpisce. C’è o non c’è. È una forma d’arte.