Camilla Baresani

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FORTUNATO CERLINO, da Gomorra a Hannibal

- Sette - Corriere della Sera - Interviste

Mito, cultura, società, filosofia, antropologia. E anche ancestrale, politico, simbolico, povertà, solitudine, immagine… Queste le parole più ricorrenti nel lessico di Fortunato Cerlino, alias Pietro Savastano, capo della camorra di Secondigliano nella serie Gomorra, nonché ispettore Pazzi nel serial americano Hannibal. Un cattivo e un buono sullo schermo, un attore filosofo nella vita vera. O’strolg, l’astrologo lo chiamava il padre, quando Fortunato era ancora un ragazzo, per via di questa sua tendenza alla riflessione e alla profondità. “L’astrologo, cioè quello uscito fuori traccia e poco concreto. A tavola affrontavo argomenti filosofici, dove normalmente si parlava di colate di cemento o di fondamenta”, dice Cerlino. Suo padre, dopo anni molto duri, da gruista a cassintegrato, era diventato imprenditore edile, così come lo sono due dei suoi quattro fratelli; gli altri sono un termoidraulico e un ebanista nautico. Tutti votati a conversazioni poco astratte.

Come mai lei, invece, ha voluto fare l’attore?

Sono cresciuto a Napoli, nel quartiere di Pianura. A sedici anni studiavo chimica industriale e ho fatto un corso di teatro, in una cantina del quartiere. Sono rimasto folgorato. All’epoca, la mia voglia di recitare aveva motivi psicologici: volevo attirare l’attenzione di mio padre e di mia madre.

Amavano il teatro?

No, ero io che pensavo di mettermi sul palcoscenico e farmi sentire. Sono cresciuto molto solo, mi sembrava di non esistete per la mia famiglia. Ma non era disattenzione affettiva, erano le difficoltà economiche. Poi, piano piano, mio padre è uscito dalla crisi; ma eravamo una famiglia numerosa e ci sono stati momenti difficili. La sera non c’era un secondo piatto da mettere in tavola.

Ora sta per compiere 44 anni. Immagino che abbia smesso di recitare per farsi notare dai genitori.

Sa quando ho capito che lo facevo per me, non per loro? Nel ’94, dopo che mi ero diplomato e avevo finito la scuola di teatro, ero in crisi. Non trovavo più le motivazioni di quello che facevo. Ho fatto un provino, ma poi ho voluto provare a cambiare vita e sono andato a Londra, a fare il cameriere. Un giorno, mentre lavoravo al Terrace bar di Harrods, il pianista che intratteneva i clienti si è messo a suonare ‘Osole mio. Avevo in mano il vassoio del tè. Sono andato in cucina, l’ho sbattuto sul tavolo e mi sono messo a cantare a squarciagola ‘Osole mio.

Il pianista era un cane e ha scatenato la sua reazione?

No, no, era bravo, mi aveva emozionato. A quel punto in cucina mi dicono: guarda che per molto meno c’è gente che è stata licenziata. Io penso “chi se ne frega” e, come in un film, esco dalla cucina, vado verso l’ascensore, si aprono le porte, esce il food and beverage manager, io penso “mi licenzia”, invece mi dice “seguimi”. Mi porta al ground floor e ordina: “Canta qui, adesso”.

Cosa si vendeva al piano terra?

C’erano un corner di fiori e uno di articoli per la casa, ma non avevo visto cosa c’era alle mie spalle. Inizio a cantare e si forma subito un capannello. Applaudono. Sempre come in un film, il manager, un arabo, mi sorride e dice: “Lo vuoi un nuovo contratto?”. Io dico: “Sì”. “Lo vuoi un aumento?”. “Certo, mi farebbe piacere”. Credevo che stesse scherzando. Si gira, mi giro, e mi mostra un bancone a ferro di cavallo. “Vedi, ieri sera abbiamo aperto la nuova pizzeria di Harrods. Da oggi lavori qui e la tua mansione è di cantare per richiamare la gente.” Da quel giorno ho iniziato a lavorare come intrattenitore. E ho anche imparato a fare la pizza. Quando passava Al-Fayed, il proprietario di Harrods, ero uno dei pochi che salutava.

E a quel punto le sarà tornata voglia di fare teatro.

Feci un’audizione per un college di Londra e portai il monologo dell’Agamennone in inglese. All’epoca vivevo con una ragazza francese, che mi aveva trasmesso un po’ del suo accento. Sono andato benissimo, ma alla prova di lettura si è capito che non sapevo ancora abbastanza bene l’inglese. A quel punto sono tornato in Italia e ho ripreso a fare l’attore. Ricorda che avevo fatto un provino, prima di partire? Era andato bene, e sono partito in tournée con Lina Sastri.

In Gomorra lei è sposato con Maria Pia Calzone, che interpreta una specie di Hillary Clinton del crimine. È molto femminile, vistosa, seduttiva. Nella vita, le è mai piaciuta una donna così, magari anche per una sola settimana?

No, no. Quando vedo una donna con lo shatush, e magari le unghie multicolore, mi metto a ridere. Ho sempre preferito la raffinatezza. Però quando la raffinatezza si sposa con qualcosa di più animale, con la passionalità e con l’istinto di una donna a prendersi quello che le spetta, sono incuriosito e affascinato. Nelle figure come quella di Imma Savastano, riconosco qualcosa di selvaggio, che è molto seducente. Un legame ancestrale con la terra. Magari un po’ esagerato.

Secondo lei, può esistere una criminale che non sia moglie o figlia o sorella di un boss?

Ci sono studi che dicono che nella ‘ndrangheta sono soprattutto le donne a comandare, ma per questo tipo di organizzazioni far parte di una famiglia criminale è una garanzia di fedeltà. Ci vuole l’investitura parentale, la dinastia. Vale anche per i maschi: non si diventa boss se non sei fratello di sangue di qualcuno. Ciò non toglie che il ruolo femminile in queste organizzazioni sia stato sempre sottovalutato: l’atto della vendetta è proprio femminile, l’uomo è più sanguigno, la donna ha una violenza di mente, più fredda e più spietata.

Torniamo ai suoi gusti. Se lei fosse solo al bar, magari in una bella piazza, quale tipo di donna vorrebbe che venisse a sedersi al tavolo accanto?

Carla Fracci. Non è giovane, ma quando una donna è bella le guardi gli occhi, le mani, come si muove… ti rapisce con la sua eleganza, con la densità e la compostezza. E poi ho sempre subìto il fascino della danza. Da adolescente mi ero follemente innamorato di una ragazzina di una bellezza indescrivibile. Ogni giorno prendevo la funicolare che va al Vomero: lei andava a danza e io a recitazione, e finalmente un giorno riuscii a dirle solo: “Ciao, comunque, io…”. Un blocco totale. Lei mi guardò spaventatissima e appena si aprirono le porte scappò via.

Ha un conto aperto con le danzatrici.

Pensi che l’unica persona della mia famiglia legata all’arte, che forse mi ha trasmesso i suoi geni, era una bisnonna materna. Era prima ballerina del Teatro San Carlo. Mio bisnonno si era innamorato di lei, che era indecisa se continuare la carriera o mettersi a fare la moglie e la mamma. Così, mio bisnonno risolse il problema: la aspettò fuori dal teatro e la sfregiò. All’epoca quel gesto era un fatto di costume: una donna sfregiata era una donna segnata, cioè era di qualcuno. Si chiamava Filomena, e il loro è stato un matrimonio felice. Ma nella mia famiglia era come se fosse rimasto qualcosa di artisticamente incompiuto. Ho raccolto il testimone.

Ora lei è un attore di successo. Ha fatto teatro con i più grandi maestri, è diventato famoso con Gomorra, ed è appena tornato da Colonia, dove avete girato alcune scene della seconda stagione del serial. Teme di restare intrappolato nell’immagine del boss camorrista?

Con Tiziana di Matteo, la mia agente, ci siamo posti il problema. Abbiamo rifiutato tutte le offerte di personaggi di camorra e malavita, per quanto economicamente allettanti. In Hannibal, che uscirà in Italia tra poco, sono un personaggio importante per la serie e decisamente positivo: l’ispettore Pazzi. Ho altri due film in uscita con ruoli non criminali e quest’estate sarò al Napoli Teatro Festival come regista e autore, con un testo che ho scritto un paio di anni fa: Potevo far fuori la Merkel ma non l’ho fatto. Racconto del rapporto degli italiani con se stessi ma anche con la Germania. Il titolo è ispirato a una cosa che mi è capitata, su un viadotto a Roma. Ero in macchina, mi è passata accanto un’auto seguita dalla scorta. Dentro c’era un politico molto importante. Per un attimo ho pensato: lo butto giù e salvo l’Italia.

Com’è il suo rapporto col denaro? Adesso immagino che stia finalmente guadagnando bene. È un risparmiatore o ha le mani bucate?

Be’, non guadagno ancora molto. Sono lontano dalle cifre da capogiro. Comunque sono un risparmiatore. Conosco la miseria nera, quindi so come evitare il baratro. Sto attento, sono uno che ha iniziato a lavorare a tredici anni, d’estate, per pagarmi gli studi. Cameriere, gommista, falegname. E poi adesso posso dirmi fortunato, ma il mestiere dell’attore nel nostro paese è difficile. Molti vivono sotto la famosa soglia della povertà. Ho visto attori con moglie e figli tornare a vivere dai genitori. È una realtà di cui non si parla, è come se gli attori non meritassero l’attenzione sociale cui ha diritto chi fa l’operaio della Fiat. Eppure la nostra professione non è un vizio, è un lavoro. Purtroppo non abbiamo sviluppato una coscienza di classe, e uno sciopero di attori è una contraddizione in termini. La nostra è una delle categorie più colpite dalla crisi eppure non facciamo notizia, nonostante l’arte e la cultura e la fantasia siano fondamentali per le società mature. Artisti, filosofi e attori avevano un ruolo preciso nella polis, ma oggi non quel ruolo non glielo riconosce nessuno.

Se non l’attore, cosa le piacerebbe fare?

Forse il filosofo: ha a che fare con la ricerca antropologica, spirituale. Mi ha sempre rapito l’osservazione dell’essere umano e mi sono sempre posto le famose domande fondamentali. La vita ordinaria non mi ha mai distratto completamente, e sin da bambino mi sono chiesto cosa c’è dietro quello che appare. Da qualche anno seguo l’insegnamento Dzogchen del buddismo tibetano. E sono testimoniale della onlus Asia.

Quali sono i suoi divertimenti?

Leggo moltissimo e ascolto tanta musica. Non amo i ristoranti costosi, i vestiti, gli orologi.

Da giovane, cosa l’ha resa infelice?

La povertà. Si vive in uno stato di vergogna continua, si sente di non essere adatti, si abbassano continuamente i propri limiti. La povertà è una casta psicologica, e sono pochi quella che riescono a romperla. Non si ha dignità sociale, è come un’onta.

Cosa le dà fastidio?

La disonestà, l’incapacità di essere dignitosi. C’è un racconto di Hemingway in cui si descrive come si può truccare una corrida. I toreri infilano spille nei testicoli dei tori. L’Italia è un paese con le spille nei testicoli: abbiamo capacità straordinarie, circostanze geografiche e culturali meravigliose, siamo come un toro fertile e stupendo, però con gli aghi nei coglioni.