Eduard Limonov, nom de plume di Eduard Savenko, sessant’anni ben portati, è l’unico scrittore contemporaneo russo noto in patria persino agli illetterati. Una popolarità perlopiù negativa: gran parte dei russi lo considera “fascista” nonché pazzo e pericoloso. Non certo per i dodici romanzi (l’ultimo è del ’90), le sei raccolte di racconti, i reportage di guerra (quella serba e quella Georgia – Abkazia) e le memorie di vita in carcere, libri tradotti e pubblicati in una ventina di paesi. Il maggior contributo alla sua notorietà è nella vita da pluridissidente globale.
Giunto a Mosca dall’Ucraina nel ’68, iniziò a pubblicare poesie in samizdat. Riuscì così a farsi notare per un ribellismo che a quei tempi era non ancora politico ma solo poetico, ottenendo il via libera all’emigrazione nel ’74. Restò qualche anno in Francia, poi si trasferì a New York, e infine tornò a Parigi. In Francia ha pubblicato diciassette libri, tutti scritti in russo ma usciti in patria solo dopo il ’91, quando riprese la cittadinanza e tornò a vivere a Mosca.
Stranamente, pur essendo pubblicato in gran parte del mondo occidentale, in Italia esiste solo una vecchia traduzione dal francese del suo romanzo più venduto, Sono io, Eddy, del ’79. Il titolo è stato rispettato nell’edizione americana, russa, francese, tedesca, ma in Italia l’editore l’ha sostituito con Al poeta russo piacciono i grandi negri. Il romanzo fa parte di una trilogia autobiografica, narrata con ironia, sfrontatezza, gusto della provocazione. Racconta della disperazione che lo prese a New York, quando venne lasciato dalla moglie, che fino ad allora si era limitata a tradirlo. Il tutto condito con elementi di vita tipica degli esuli russi a Manhattan. Il protagonista è così infelice che finisce per farsi possedere da un negro, tra le lacrime. Ecco spiegata l’infelice genesi del titolo italiano. Di Limonov c’è anche un racconto nell’antologia I fiori del male russi (Voland, 2001). Ed è in corso di traduzione (questa volta dal russo) il secondo dei romanzi autobiografici, L’adolescente Savenko, ambientato a Char’kov, in epoca comunista. Uscirà nell’estate 2005, edito da Ponte alle Grazie.
Non è stato difficile, a Mosca, ottenere un appuntamento con lo scrittore; più difficile scovare il luogo dell’appuntamento, cioè la sede del Partito Nazional Bolscevico – da lui fondato. Da settembre Limonov è in libertà vigilata, dopo due anni di carcere per traffico d’armi. Era stato accusato di organizzare bande armate e di aver spinto uno di questi gruppi ad attraversare il Kazakistan, per iniziare da lì l’attuazione del programma di lotta.
Siamo al caseggiato indicato nell’indirizzo, ma il numero non si trova. L’interprete telefona: “Dov’è l’ingresso?”. Da una sorta di tombino sbuca un ragazzo. Lo seguiamo. Pochi gradini ed entriamo in un sotterraneo. Su sedili in legno da cinema, stazionano tre giovani con l’aspetto malridotto degli estremisti di ogni luogo e tempo. Poi, oltre una porta, eccoci al cospetto del fondatore, ideologo e capo del partito. Disordine, sporcizia, luci fioche e ovunque megafoni, disegni di falci e martello, di mani che brandiscono pistole, manifesti che incitano alla lotta o addirittura alla morte (“Sì, morte!”), e altri disparati gadget comunisti. Nella stanza di Limonov, e nelle altre dove sono sparpagliati i suoi giovani adepti, è abbondantemente ritratto il simbolo del partito, una granata con fulmine(Limonka vuol dire granata, ed è anche il nome del giornale del partito). Alla parete, dietro le spalle dello scrittore, una grande mappa di Mosca. La sede del partito ricorda la tristezza delle stanze “occupate” dove si riunivano i collettivi negli anni ’70, ma anche le indimenticabili storie di Kroda dei fratelli Ruggeri.
“Sa che i suoi compatrioti la ritengono fascista e antisemita?” gli chiedo. Allora, con puntiglio, mi spiega che razza di ideologia sia la sua, cioè quella del partito. Gli è capitato di incontrare Le Pen e solidarizzare con lui, ma il legame più stretto l’ha avuto con estremisti di sinistra e con i nazionalisti serbi. Anzi: è dalla guerra in Serbia, cui ha partecipato (e di cui tratta l’ultimo suo libro pubblicato in Francia, La sentinella asssassinata), che in lui s’è accesa la passione politica. Poi, quando le sue idee l’hanno reso sgradito in Francia, è tornato a Mosca. In Russia l’atmosfera era favorevole, perché la questione serba aveva riacceso l’antiamericanismo. “Quindi lei se n’è andato dalla Russia durante il comunismo e adesso ha un partito bolscevico?”: è una domanda che si sarà sentito rivolgere centinaia di volte. Limonov, attorcigliando la punta dei baffi, spiega che il comunismo è terminato con la NEP (la riforma economica staliniana del ’31). Lui non vuole il ritorno a una forma di comunismo puro: il nome del partito è solo un tentativo di mantenersi legati alla tradizione, creando una nuova ideologia che non sia di destra né di sinistra ma che “segua il concetto bolscevico di giustizia sociale e nazionale”. La sua, in pratica, è una nuova ideologia, che dovrebbe ridare un’identità alla Russia (“Oggi il nostro paese non è altro che una marionetta dell’Occidente, non ha più un’identità propria”) e dovrebbe riunificare i ventisette milioni di russi residenti all’estero, stimolando il loro orgoglio nazionale.
Limonov mi dice che ci sono ben sessanta affiliati ad aver subito condanne, dai cinque ai nove anni: “Ma quando tornano sono ancora del partito”, conclude soddisfatto. “Del resto ci capiamo”, ammicca: “Voi avete avuto le Brigate Rosse. So tutto di Mara Cagol e Renato Curcio!” aggiunge col tono orgoglioso con cui agli italiani all’estero si dice di essere appassionati di Claudio Abbado o Del Piero. Ricorda che nel ’76 abitava a Roma e andava all’università per seguire le lezioni di Angelo Maria Ripellino. Cosa ne capisse non sappiamo, ma quell’esperienza universitaria gli fece vivere anche gli scontri tra polizia e studenti, i lacrimogeni, le bandiere rosse. Lui ne fu entusiasta: “Il conflitto vivifica più della quiete. Peccato non ne sia venuto fuori nulla”, si rammarica. Addirittura ricorda suoi incontri segreti nelle chiese: doveva consegnare valigie di cui non conosceva il contenuto. Suoi conoscenti esuli gli dicevano: “Porta la valigia”, e lui la portava.
I ragazzi lo adorano. Timidi o sfrontati che siano, ridono quando lui ride, oppure stanno zitti e si fingono assorti fra scartoffie e monitor di antiquati computer, mentre in realtà ascoltano ansiosamente il capo che parla con noi. Posso anche capirli: sono a contatto con un uomo che esprime l’energia invasata degli agitatori, e racconta dettagli di una vita romanzesca che, a loro che hanno vissuto dieci anni di comunismo reale e dieci di altrettanto reale sfacelo misto a rincorsa capitalistica, danno la sensazione di vivere in una fiction (tra vent’anni saranno una “meglio gioventù” da sceneggiare?). Intanto, in uno degli stanzoni percorsi da tubature sul soffitto, una ragazza (esperta di arti marziali, mi dice) si sta facendo tatuare la granata sul braccio, che più tardi ci mostrerà gonfio e arrossato, piena d’orgoglio.
Limonov tiene anche a precisare di non essere antisemita. Anzi: esiste un distaccamento del suo partito persino in Israele. “Semplicemente nei russi non c’è senso di colpa per l’Olocausto, d’altronde non c’è nemmeno per i gulag”. Non sarà antisemita, tuttavia è filo-Saddam, filo-Black Panthers e attualmente anche filo-ceceno. Ma solo dopo esser finito nello stesso carcere dov’era custodito Raduiev, il più noto dei terroristi ceceni: prima d’allora era stato favorevole alla guerra contro la Cecenia.
Infine mi spiega perché i suoi romanzi non furono pubblicati in patria fino agli anni ’90. La sua prosa è ricca di gergo della mala e della gran quantità di parolacce russe . Paradossalmente, nell’URSS dove stuoli di prostitute stazionavano davanti agli alberghi, i più grandi tabù erano la pornografia e il turpiloquio -di cui i romanzi di Limonov sono zeppi. Ora, invece, non scrive più narrativa, ma memoir letterari, di cui l’ultimo, il libro cui più tiene, è stato scritto in carcere. Intitolato Il libro dell’acqua, racconta le sue esperienze collegate a luoghi d’acqua: mare, fiumi, pioggia, piscine e bagni turchi.
Gli chiedo se vive solo: “No, ho una ragazza di ventun anni, che ne aveva diciassette quando sono finito in carcere. Mi ha aspettato”, aggiunge soddisfatto. A me viene in mente un dipinto che ho visto il giorno prima alla Galleria Tret’jakov. E’ un quadro di Pukirev, dipinto nel 1862: Il matrimonio impari. Raffigura un vecchio segaligno e di nobile aspetto mentre sposa una giovane bionda, con l’aria remissiva e infelice. E’ un dipinto molto noto, perché intendeva denunciare la condizione sottomessa delle donne russe. Lo dico a Limonov, che sorride e subito ribatte: “Ma anche De Sade aveva ragazze di sedici anni e nessuno ci trova nulla da dire!”.