Filippo Timi è un ragazzone con l’aspetto di un monaco medievale e l’impeto dei predicatori. La sua voce particolarissima, graffiata, segnala il percorso accidentato della mente e delle corde vocali per sconfiggere quella balbuzie che molto gli ha tolto e però molto gli sta dando, in termini di carattere, particolarità, sfida esistenziale. A volte, nei momenti più emotivi della conversazione, si inceppa (e ti chiede di aiutarlo, pronunciando la parola che non arriva). Le sue parole, sciolte o balbettate, sono tuttavia sempre significative, esatte, vere. Non per niente è anche uno scrittore.
Com’è stato recitare nel ruolo di Manfred, il protagonista di “Quando la notte”: hai dovuto costruirlo o ci hai trovato caratteristiche che ti appartengono?
Recitare non è saper fingere. Io sfrutto il ruolo, la maschera, per dire cose autentiche. Quando mi dicono di emozionarmi, io provo a lavorare su corde che mi faranno emozionare sul serio. Quando guardo gli altri attori individuo subito la differenza tra quelli che si limitano a interpretare – bene, per carità – una battuta e quelli che in quella battuta cercano la verità.
E se quella battuta ti sembra ridicola, o perlomeno non ti appartiene?
Be’, la cambio! Con la scusa che balbetto, dico al regista: “Guarda che non riesco”.
E come erano le battute di Manfred?
Era un ruolo complicatissimo. Tutto interiore. Ma per alcuni aspetti mi appartiene: anche io sono un turbato, un timido, vivo un travaglio continuo. E poi, come Manfred – abbandonato dalla madre e dalla moglie, che gli ha portato via i figli- , anch’io ho dentro di me qualcosa di abbandonato. Forse perché sono settimino, e, appena nato, anziché respirare accanto al respiro e al battito di mia madre, sono stato tenuto lontano da lei, in ospedale.
Com è sul set Cristina Comencini?
In alcune scene è stata affettuosa, in altre invece ti avvicina e ti sposta senza spiegazioni. A volte si concede il tempo di fare lunghe chiacchierate filosofiche sul senso di una scena. È una regista che non si tira indietro. Il film è stato molto coinvolgente, anche per le difficoltà che abbiamo affrontato insieme. La montagna, il freddo, i luoghi inaccessibili.
E la tua coprotagonista, Claudia Pandolfi?
Siamo due che la verità ci esplode in bocca. Mi ha coinvolto moltissimo. È ruvida, dolcissima, spontanea, spudorata, fragile, senza troppi filtri. È stato un amore folle, è nata un’identificazione. Abbiamo fatto il primo provino insieme, e per entrambi è stato subito chiaro – ce lo siamo detti appena fuori, al bar : “Se ci prende, ci prende insieme”.
Parli con un tale entusiasmo… è così per tutti i film?
Non sempre sento di essere perfetto per un ruolo. In questo caso invece l’ho pensato. Per la materia, i personaggi, i luoghi… non servivano attori “attoriali” ma attori con turbamenti interiori extra-ordinari. Come i miei.
Nel film ci sono scene erotiche molto forti. Ti ha creato più problemi la nudità emotiva del personaggio o quella fisica?
A Formentera, dove tutti girano nudi in spiaggia, mi vergogno e sto col costume. Ma sul set, se c’è una motivazione vera, non mi crea problemi essere senza vestiti e mostrare il pistolino. Quando Manfred e Marina si reincontrano sono così carichi di attese e dimenticanze, la loro emozione è così accesa, che lì sì, lì mi sono sentito davvero nudo, in modo primordiale.
Nudo e piccolo nonostante tu sia un omone.
Sì, un microbo di fronte all’incombere del Monte Rosa, all’eternità di quelle pietre, alle costrizioni che ti capitano e non puoi farci un cavolo, perché vivi in un paese isolato e hai una famiglia. Credevo di avere davanti a me, nella vita, chissà quanto tempo, e invece a Macugnaga mi sono reso conto che basta lo starnuto di una montagna e sparisci. Ti fa sentire piccolo ma ne cogli anche l’aspetto divino, francescano, come se ti abbracciasse.
Come definiresti “Quando la notte” in poche parole?
È un film epico. Di un’epoca cruda, carnale e ruvida, i cui protagonisti sono l’uomo, la donna, il bambino.