Camilla Baresani

Sommario

GIANCARLO MENOTTI e il Festival dei Due Mondi

- Vanity Fair - Interviste

Se per i lettori di Repubblica il Fondatore per antonomasia è Eugenio Scalfari, a Spoleto l’unico Fondatore possibile risponde al nome di Giancarlo Menotti. Novantatré anni appena compiuti, il Maestro è uomo di gran classe, curioso e irriverente. Dice di dialogare tutti i giorni con la morte ma parla assai volentieri delle cose dei vivi. Compositore e fondatore del Festival dei Due Mondi (giunto alla 47° edizione), Menotti è uno dei pochi personaggi contemporanei che abbiano dato prestigio internazionale all’Italia, elevandola dal rango di paese di mafia e stornellatori.

Maestro, le interviste hanno una loro utilità anche per chi le concede: aggiustano il tiro sull’immagine pubblica di sé, aumentano il numero di amici e nemici. Da dove preferisce cominciare?
Da un rimpianto: ho inventato questo Festival e mi ci sono dedicato con tutto me stesso, organizzandolo e cercando sempre nuovi talenti da lanciare: questo ha sottratto tempo alla mia carriera di compositore. L’arte richiede un’attenzione continua, assoluta. Come l’amore. Non per niente i grandi artisti sono stati tutti pessimi mariti e padri.

Però come padre del festival lei si è guadagnato una fama internazionale.
Certo, ma avrei preferito entrare nella storia della musica anziché in quella dei festival. Ricordo solo grandi due artisti che abbiano abbinato l’attività organizzativa a quella creativa senza che l’una intralciasse l’altra: Goethe, che ha diretto un teatro, e Wagner, che ne ha creato uno. Ma entrambi vi rappresentavano i loro lavori. Io invece i miei li ho un po’ traditi.

In cambio ha avuto la gratitudine eterna degli spoletini.
Macché. Qui mi fanno pagare l’affitto di ogni minimo spazio. E non c’è un solo abitante che si faccia vedere agli spettacoli. Provi a chiedere agli spettatori da dove vengono: di Spoleto non ne troverà nemmeno uno.
Saranno troppo impegnati a lavorare negli alberghi e nei ristoranti che ospitano e rifocillano il pubblico del Festival…
Per carità, non mi parli dei ristoranti. Lo sa quanti ristoranti ci sono a Spoleto? Più di venti. Eppure non se ne trova uno dove si riesca a mangiar bene. La cucina italiana è in decadenza completa. Nei ristoranti si mangia solo roba comprata al supermercato. Prenda la frutta, per esempio: quella che vendono nei supermercati non sa di niente, perché la raccolgono quand’è ancora acerba. Sembrano palle da biliardo. E anche l’aglio, le cipolle non sanno di niente.
Fa uno strano effetto immaginare il Maestro Menotti in giro per Coop e Sma. Lei frequenta i supermercati?
Altroché se li frequento. Soprattutto dove abito, in Scozia. Ci vado un po’ per curiosità e un po’ – soprattutto – per giocare alla lotteria. Ormai sono anni che gioco e non vinco mai. Mai. Mai.
Non ha guadagnato abbastanza facendo il compositore?
Lasci stare: è tutta la vita che cerco soldi. Mi servono per il Festival. Potrei scrivere un libro sui miei rapporti con i ricchi che cerco di trasformare in mecenati. Sempre lì a tentare di convincerli che senza gli artisti la loro vita sarebbe vuota, niente design, niente quadri, niente musica. Ma quelli non scuciono mai una lira. Nemmeno a titolo di diritto d’autore per le mie canzoni che canticchiano facendosi la barba. Al massimo mi rispondono che d’ora in poi quando canticchiano mi penseranno con gratitudine.
Insomma, i ricchi sono un osso duro, gli spoletini non parliamone, ma la sua musica le avrà dato delle soddisfazioni?
Certo. Ma non riesco più a scriverne. Sono troppo vecchio: dopo un po’ che compongo, comincia a farmi male il cuore. Troppe emozioni. Comunque la coscienza di poter scrivere la mia musica mi ha sempre dato forza e ottimismo. Certo, non sono mai stato di moda, non ho mai avuto il favore di critici e musicologi, che anzi mi accusavano di essere troppo tradizionale. Ma io non ho mai scritto per loro, per compiacerli. Sono sempre stato me stesso.
Spesso si diventa di moda dopo morti.
È successo a tanti compositori. Il mio amico Samuel Barber è stato attaccato dai critici e ha vissuto stagioni molto amare. Adesso che è morto è diventato popolarissimo. Idem Rachmaninov: la gente inorridiva quando sentiva il suo nome. E un altro è quel cecoslovacco, Janacek. Chi mai lo eseguiva quand’era vivo? Nessuno. E adesso lo si dà in tutto il mondo.
Però lei è vivo e non mi sembra affatto impopolare. In America le hanno dedicato una copertina di Time e assegnato non so più quanti premi, fra qualche giorno a Vienna c’è la prima del suo Goya con Placido Domingo…
Già, il mio Goya. Ho molti dubbi sul regista. Quella gente ha la mania di attualizzare le opere; il che, nella maggior parte dei casi, significa rovinarle. Non bisognerebbe permettere ai registi di stravolgere materiale che non è loro. E’ una cosa indegna, come correggere un quadro di Rubens per metterci donne più magre. Le opere d’arte bisogna accettarle così come sono, con i loro eventuali difetti e nella loro cornice storica.
Ora che non compone più e che ha lasciato a suo figlio Francis la direzione artistica del Festival, come passa le giornate?
Questi ultimi anni che mi restano li dedico a imparare. Ho cancellato ogni altra attività e passo la maggior parte del tempo leggendo. Cerco nella filosofia risposte alle molte domande che mi pone l’imminenza della morte, con cui dialogo tutti i giorni.
Lei crede in Dio?
Una volta sono andato a una seduta spiritica, più che altro per curiosare. E c’era una donna che parlava con la figlia morta. Ci parlava, letteralmente. Davanti a quella scena mi sono chiesto se sia meglio credere e vedere qualcosa o non credere e non vedere niente. Il mio è un approccio laico alla fede: accetto che l’uomo abbia la necessità di credere. La fede è una grande forza: peccato che gli uomini non abbiano imparato a gestirla. Comunque, fede o non fede, una prova dell’esistenza di Dio c’è, ed è l’arte, la trasfigurazione dell’esistente per mano dell’artista. Se non è un atto divino quello…
Cosa le piace oltre alle letture filosofiche?
In realtà leggo di tutto, giornali, musica, romanzi. Qualche giorno fa una signora mi ha chiesto se avessi letto l’ultimo libro di Eco. Le ho detto che nelle biografie è lecito non dire la verità, ma nei romanzi no: e per me Eco non dice la verità. Se l’arte non sa esprimere verità, allora è meglio dedicare la propria attenzione alla vita, che ti stupisce sempre. Diversi anni fa sono andato a trovare Wally Toscanini, ormai stravecchia. Sto lì, le parlo, le dico ricordi quell’episodio, o quella volta, o quell’altra… e lei niente, immobile, come fosse secca e vuota dietro la sua veletta. Dopo un po’ mi stufo, capisco che è tutto inutile e mi alzo per salutarla. “Sei sempre bella come una volta” le dico per accomiatarmi. E lei, dietro la veletta, mi fa un gran sorriso.
Deve aver fatto una grande esperienza di primedonne col suo lavoro.
E’ tutta la vita che ne sono circondato. Per dirne una, ricordo la Callas alle prove delle debuttanti alla Scala. Si metteva in prima fila, col cannocchiale e lo sguardo losco di chi non vede l’ora di criticare. Le poverette cominciarono a lamentarsi: le metteva in imbarazzo e le faceva sbagliare. Wally Toscanini venne incaricata di convincerla a sedersi in posizione più defilata, magari in un palco. Cominciò prendendo il discorso alla larga, ma la Callas sembrava non capire. E così finì per dirle: “Sai, è brutto quello che fai, te lo dico come fossi tua madre”. E la Callas, perfida: “No, tu potresti solo essere mia nonna”.
Un’ultima domanda: le sue biografie dicono spesso “compositore americano”. Ma lei è nato vicino a Varese e vive in Scozia.
Sono italianissimo. Però i libretti delle mie opere li ho scritti in inglese. Americano lo sono stato solo per un giorno, quando ho ricevuto il Premio Kennedy, che viene dato esclusivamente a cittadini americani. Era il 1994, ricordo che mi telefonarono dalla Casa Bianca per darmi la notizia. “È un grande onore, ma non posso accettare,” risposi. “Sono cittadino italiano.” L’indomani il Presidente Reagan mi mandò un messaggio chiedendomi di essere americano per un solo giorno.
Garantiva che il giorno dopo mi avrebbe tolto la cittadinanza. Così accettai.
Diventando a pieno titolo cittadino dei Due Mondi.