Camilla Baresani

Sommario

GIORGIA WÜRTH, ”L’accarezzarice”

- Style - Corriere della Sera - Interviste

Se sei un’attrice sulla cresta dell’onda, e passi dalle fiction al cinema e dal teatro alla conduzione di programmi televisivi, e hai solo 32 anni, è difficile che ti lanci anche in una carriera da scrittrice. Sono cose che si tentano quando il mondo dello spettacolo ti spegne i riflettori sotto il naso e allora ci si mette alla prova con un’ esistenza più riposta e concentrata. Invece, Giorgia Würth, madre ligure e padre svizzero, seduta di fronte a me con tutto il suo fascino di lineamenti aguzzi e mitteleuropei – ce la si immagina ritratta da Klimt o in una scena alla Barry Lindon -, ha deciso che le due carriere di attrice e scrittrice sono perfettamente congruenti, e anzi si tratta di un incastro ideale.

È appena andato in onda un film TV in cui lei recita con Giancarlo Giannini, sta per uscire un suo film in Svizzera, e il primo aprile sarà in libreria il suo secondo romanzo, L’accarezzatrice: come concilia questi due generi di impegno?

Quando sono sul set non scrivo: ci riesco solo quando ho settimane e mesi senza nessun impegno. Mi chiedo sempre cosa fanno gli attori quando non lavorano. Escludendo quelli delle soap opera, che lavorano tutti i giorni, un attore lavorerà… 90 giorni all’anno? Se gli va bene. E allora cosa fai gli altri giorni? Tanti uomini vanno in palestra dalla mattina alla sera, se hai figli te ne occupi, io senza la scrittura mi deprimerei molto.

Scrive di giorno o di notte? E quali sono i momenti più creativi?

Inizio la mattina presto perché alle 5 del pomeriggio già non connetto più. Quando si scrive, il tempo vola, oppure non passa mai. Magari finisco nel vortice di una ricerca su Internet e arriva sera che sono ancora in camicia da notte, ho bevuto 25 caffè e non mi sono ancora lavata. Non sono i miei periodi migliori! Quanto ai momenti in cui mi vengono più idee,  di solito succede quando faccio un massaggio: lì parto con la mente, creo, avrei così tante cose di cui prendere nota.

Preferisce scrivere o recitare?

Sono attività complementari, ma credo che potrei fare a meno della recitazione, non della scrittura. Se si potesse campare solo di romanzi… però mi dicono che in Italia gli autori che ci riescono sono venti, trenta al massimo. Fare l’attore è un lavoro in cui hai una responsabilità molto limitata, reciti un copione altrui, qualcuno ti veste, qualcuno ti trucca, qualcuno ti dice cosa devi fare. La scrittura invece è totalmente responsabilizzante: se viene male è solo colpa mia, e questa è una sfida affascinante.

La storia che racconta in L’accarezzatrice è molto particolare. Come le è venuta in mente?

Mi era già successo col primo romanzo (Tutta da rifare, Fazi editore): l’idea mi è venuta leggendo il giornale. Circa sei anni fa ero in Svizzera e ho letto una notizia che parlava di formazione di “assistenti sessuali ai disabili”, una figura professionale che in Italia ancora non esiste. La cosa mi ha incuriosita, ho iniziato a fare delle ricerche e alla fine ho costruito un romanzo. Non ho parenti né conoscenti disabili, e questa è stata la molla, la condizione necessaria per farmi scattare la curiosità.

E cosa ha scoperto sul mondo degli “assistenti sessuali”?

Io faccio sempre questo esempio: è come se tu avessi una sete pazzesca e davanti a te ci fosse un bicchiere pieno di acqua ma non riuscissi a prenderlo perché hai problemi meccanici o mentali. C’è quindi bisogno di qualcuno che ti aiuti, che supplisca al gesto che non puoi fare e ti passi il bicchiere d’acqua. Anche il sesso è un’esigenza fisica, a maggior ragione per le persone ingabbiate in corpi che non permettono nemmeno di masturbarsi. Spesso le prostitute hanno paura di avere a che fare con corpi così malati, oppure non hanno pazienza, guardano l’orologio e dopo dieci minuti se ne vanno. Provi a immaginare l’imbarazzo di certe mamme magari anziane, alle prese con il legittimo desiderio sessuale di un figlio disabile, che magari diventa violento, aggressivo, esibizionista. Il sesso dei disabili è rimasto l’ultimo vero tabù, soprattutto se si tratta di donne. E il mio romanzo parla proprio di questo.

Cosa fa un “accarezzatore”?

In pratica si occupa di masturbare i clienti, ma lo fa dopo aver seguito dei corsi di formazione con psicologi e sessuologi. Non sono figure improvvisate. Di solito si tratta di infermieri, fisioterapisti e certo, anche di prostitute/i, ce hanno una sensibilità spiccata verso i disabili. Chi lo fa, lo vive come una missione. I massaggi fanno parte di questi incontri, che durano un paio d’ore: ci si abbraccia, ci si accarezza, si mette della musica, si crea un’atmosfera romantica. Ecco il perché del titolo del mio romanzo.

Nascono amori?

È un rischio: il cliente può innamorarsi. Per quello si studia: bisogna saper mettere le cose in chiaro. Nel mio romanzo nasce un amore, ma è reciproco.

Cosa succede nel romanzo?

L’accarezzatice è ambientato tra la provincia di Varese e il Canton Ticino. Gioia è un’infermiera che viene licenziata dalla clinica dove lavora, perché è in esubero. Suo padre è malato, e lei ha bisogno di soldi per curarlo. Il fidanzato con cui doveva sposarsi e avere tanti bambini l’ha lasciata. Non trova un altro lavoro e allora decide di seguire un corso di formazione per assistenti sessuali ai disabili. Un giorno incontra un quarantenne rimasto paralizzato in seguito a un incidente, arrabbiato e amareggiato, e… insomma, un po’ alla volta tra loro scatta qualcosa.

Sembra il plot di un film. Immagino che durante la scrittura lei si sia immedesimata e si sia chiesta se quel lavoro riuscirebbe a farlo.

Non mi ripugna affatto e credo che potenzialmente potrei farlo, però mi mancano le competenze professionali.

Nel romanzo finisce per parlare anche di differenze tra sessualità maschile e femminile, che – appunto – nella condizione dei disabili divengono più sfumate. Lei come vive il sesso, come una necessità?

No, per me non è come la necessità di andare in palestra tre volte in settimana: dipende da chi ho davanti. Purtroppo il sesso in sé e per sé non mi hai mai allettato. Un uomo per farmi sangue deve attrarmi mentalmente, la fisicità non basta. Come può immaginare, in questo modo diventa tutto più complicato.

E’ stato difficile trovare un editore?

No, e ho fatto tutto da sola. Ho contattato la Mondadori tramite Facebook, mi hanno risposto: ho mandato il libro e dopo circa cinque mesi, mentre tornavo in treno dalla Mostra del Cinema di Venezia, mi ha chiamato Giulia Ichino, la responsabile della narrativa italiana della Mondadori, e mi ha detto che erano felicissimi di prendere il mio romanzo. Sono scoppiata a piangere in treno!

Su RAI2 è appena andato in onda Un angelo all’inferno, dove recita la parte di amante di Giancarlo Giannini. Come è stato lavorare con una simile star?

È molto più figo di tanti giovani, ha un fascino strepitoso. Mi ha emozionato lavorare con lui, gli ho fatto tremila domande!

Cosa pensa del cinema italiano?

Il cinema italiano è morto: non è che si possa essere ottimisti perché vanno bene due o tre film. È un sistema che si autoalimenta e che continua a mettere in circolo le stesse persone. Si punta su un usato sicuro, in realtà insicuro, spesso scadente.

I suoi autori preferiti?

I miei romanzi preferiti sono Il piacere di D’Annunzio e Memorie di un nano gnostico di David Madsen. Sto leggendo Resistere non serve a niente di Walter Siti, devo dire con grande difficoltà. Quanto al cinema, sono un amante di quello orientale, soprattutto Takeshi Kitano e Kim Ki-duk. E poi mi piace il cinema di francese di François Ozon.

Serie televisive?

Ho rischiato una grave forma di dipendenza da 24, e soprattutto da Kiefer Sutherland. Per lui ho avuto un’infatuazione come mai mi era successo nella vita. Del tipo che quando uscivo andavo in un negozio o a fare la spesa e pensavo “questo maglioncino piacerà a Kiefer?”, “i fusilli gli piaceranno?”. E pensare che in quel periodo ero anche fidanzata! Mi piaceva la figura che incarnava, un uomo che non ha niente da perdere, che mette continuamente in gioco la sua vita.

Ha un fidanzato?

No, al momento sono single. Da pochi giorni. Anzi, se c’è qualcosa che ha dimenticato di chiedermi, o che non le è chiaro, può chiamarmi quando vuole. Adesso ho tanto tempo libero.