Camilla Baresani

Sommario

LORIN MAAZEL

- Vanity Fair - Interviste

Venezia, ascensore del Teatro La Fenice. E ‘ ora di pranzo. Si aprono le porte, entra un orchestrale. ”Oggi abbiamo suonato perdavvero: finalmente ci si diverte!” esclama soddisfatto.
Che succede? E’ arrivato Lorin Maazel, ed è appena finita la sua prima prova con l’orchestra. Tra qualche giorno il Maestro dirigerà la Traviata, che Verdi compose apposta per questo teatro e che il 12 novembre inaugurerà la prima stagione lirica della Fenice risorta dalle ceneri.
Nel pomeriggio assisto alle prove: Maazel è concentrato, e non sembra stanco nonostante sia appena arrivato da Tokyo. Canticchia le arie per farsi capire meglio: ”Il suono dovrebbe essere un po’ più marziale!… Sì, bene, ora rifacciamo la 163. prego, battuta 370. Bravo, bravissimo!”. Quando emerge dalla buca, dopo le prove, vedo un uomo che non dimostra gli anni che ha (è nato nel 1930), vestito sportivamente, con uno sguardo acutissimo e vivace. Mentre parliamo mi colpisce la sua grande disciplina: non divaga, risponde volentieri ma, dopo anni di interviste, è come se avesse interiorizzato un tempo/risposta di straordinaria precisione. Né troppo né troppo poco. Del resto la carriera di Lorin Maazel è quasi settantennale: il suo primo concerto lo diresse a otto anni.

Maestro, lei è stato un bambino prodigio. C’è stato un periodo della sua vita in cui ha temuto di non diventare un adulto prodigio, come spesso succede?
Il talento per la musica, come quello per la matematica, si manifesta molto presto e con evidenza. Ma chi ce l’ha non se ne accorge. Non sa di avere qualcosa di più, semmai si stupisce che gli altri abbiano di meno. Il motivo per cui un giovane talento non si sviluppa armoniosamente è dovuto perlopiù all’eccessivo sfruttamento. Io ho avuto la fortuna di avere genitori che mi hanno lasciato godere la vita. Tra gli otto e i sedici anni ho dato pochissimi concerti: non più di una cinquantina.

Suo padre era attore e sua madre ha fondato un’orchestra di ragazzi. Esiste un’ereditarietà del talento artistico?
Penso di sì. Nella mia famiglia c’erano due attitudini: quella per il teatro e la musica, e quella per la medicina. Mia madre le aveva entrambe.

E lei non ha mai avuto dubbi? Da quando a cinque anni ha iniziato a studiare violino, ha sempre desiderato fare il musicista?
Da ragazzo provavo una grande ammirazione per Albert Schweitzer. Per me era un eroe, e ho avuto spesso la tentazione di lasciare tutto per diventare come lui, filosofo e medico.

Lei è direttore d’orchestra, suona il violino e compone musica. C’è una di queste attività che preferisce? E quale le riesce più difficile?
Sono tutte e tre appassionanti, non saprei dire quale preferisco. Dirigere un’orchestra è bello per la sfida di trasmettere l’energia e la passione della partitura all’orchestra, e tramite l’orchestra al pubblico. Suonare il violino mi è sempre piaciuto: quando mi vien voglia di suonare solo per me, scelgo sempre il violino. Di queste tre attività la più faticosa è senz’altro la composizione: la continua ricerca della nota giusta è un lavoro molto pesante, che consuma.

Ritiene di avere una cifra stilistica, un tratto particolare rispetto a quello di altri direttori d’orchestra?
Io mi sento musicista, e il musicista è un servo della musica. Sono al servizio della partitura, che esprime i desideri musicali del compositore. La partitura è una specie di Bibbia: il mio dovere è tramutare i suoni in emozioni, interpretare esattamente le note e comunicare a un pubblico esperto i sentimenti che esprimono. Il musicista è anzitutto un buon comunicatore. E ha successo non chi ha uno stile, ma chi ha forza comunicativa. E’ importante essere convincente, questo sì. Io ci metto sempre molta passione, e se ho avuto successo è solo perché riesco a comunicare sentimento. La musica è un linguaggio: esiste perché ci sono sentimenti che le parole non riescono a esprimere.

Si dice che lei abbia una memoria prodigiosa, superiore a quella di altri famosi direttori d’orchestra.
Non è vero, purtroppo. Dirigo spesso a memoria perché ho studiato e continuo a studiare molto. Se devo dire grazie a qualcosa, non è alla mia memoria ma alla forza di volontà, e soprattutto alla passione che non mi ha mai fatto sentire la fatica del lavoro.

Cosa fa prima di dirigere? Digiuna, dorme, ha dei rituali scaramantici?
Non sono superstizioso come i cantanti. Per me l’unica cosa importante è non sprecare energia nervosa. Quindi nemmeno conversare: la conversazione stanca. Leggo qualcosa, ma non troppo. Sto solo. L’importante è non salire sul podio emozionalmente esauriti.

Quali sono le malattie professionali di un direttore d’orchestra?
Certi direttori che non sanno dirigere hanno dolori dappertutto: la schiena, la nuca, il polso, le spalle. Io sto benissimo e non ho mai sofferto: è molto importante assecondare i movimenti con la profondità del respiro.

Che genere di musica le piace ascoltare?
Soprattutto musica da camera: Schubert è il mio compositore preferito. Ma ascolto anche musica popolare, perlopiù tzigana, e poi il fado, e il jazz degli anni Trenta.

E un genere di musica che le dà fastidio?
Più che un genere si tratta di un modo: la musica imposta. Oramai a inquinare l’aria non abbiamo solo il fumo, ma anche la musica, purtroppo. C’è una gran quantità di luoghi – aerei, centri commerciali, hall di albergo – dove si vive l’imposizione di musica ritenuta ”adatta all’ambiente”, in genere valzer o musica pop. Non ci si salva nemmeno per la strada. E’ una vera e propria dittatura. La gente non capisce che il silenzio è d’oro e la musica deve essere una scelta personale, fatta con libertà, secondo la sensibilità del momento.

Cosa le piace leggere, oltre alle partiture?
Leggo volentieri Schopenhauer, anche se è spesso deprimente. E poi Orwell: 1984 mi ha talmente affascinato da ispirarmi un’opera, che sto finendo di comporre e che verrà rappresentata nel 2005.

È religioso?
Sono principalmente antiortodosso. Nel nome della religione di turno, dall’inizio della storia sono stati assassinati milioni di persone: quindi provo fastidio di fronte a qualsiasi ortodossia religiosa. Se invece per religione si intende l’aspetto spirituale dell’esistenza, allora posso dire che di questa religione mi occupo ogni giorno, visto che la musica è un’espressione spirituale e mi aiuta a indagare su quelli che per me sono i problemi cruciali dell’esistenza.

Una domanda inevitabile di questi tempi: le interessa la politica, tifava per uno dei due candidati alle presidenziali americane?
La politica dell’artista è l’arte stessa. Un musicista che appoggi apertamente un partito sminuisce l’arte. Naturalmente non mi riferisco a chi viva in un clima di dittatura, come a suo tempo Toscanini.

Veniamo alla Fenice: entrando nel teatro ricostruito, molti hanno storto il naso: troppo nuovo, troppo luminoso, sembra di essere a Las Vegas. Lei cosa ne pensa?
Questo teatro era un gioiello, e sarebbe stato sciocco ripensarlo come una struttura nuova. Di sale nuove ce n’è moltissime, e tante altre se ne stanno costruendo in Giappone, in Corea, in Spagna. La Fenice era unica, ed era doveroso ricostruirla esattamente com’era.

Per l’inaugurazione eseguirà La Traviata nella prima versione, quella del 1853. Quale è la sua versione preferita?
Ho diretto La Traviata una settantina di volte. Di solito la eseguo nella seconda versione, ritoccata e migliorata da Verdi con qualche modifica non sostanziale. Ma per inaugurare la nuova Fenice era comunque impensabile scegliere una versione che non fosse quella battezzata fra queste mura.

Il compleanno del Maestro Maazel è il 6 marzo. Anche quello della Traviata. Un caso di destini incrociati.