Camilla Baresani

Sommario

MARINA ABRAMOVIC

- Io Donna - Corriere della Sera - Interviste

Seducente e suadente, istrionica e imperiosa, concentrata e coerente. Sono definizioni calzanti per la fenomenale Marina Abramovic, imperatrice della performance art, celebrity con folle di devoti, donna passionale che è riuscita a trasformare gli elementi della sua lunga e complicata vita in un’esplorazione dei limiti fisici e mentali dell’esistenza. A differenza di altri celebri artisti contemporanei, quelli di cui leggiamo continuamente i nomi (Koons, Hirst, Cattelan, Kiefer…), la Abramovic non crea un’opera per poi lasciarla in una galleria in attesa che qualcuno la compri: è lei stessa la propria opera. La sua essenza di artista eccezionalmente comunicativa è nelle performance in cui si mette in gioco davanti al pubblico. “Nel mio caso, se non c’è pubblico non c’è arte. Il pubblico e l’artista sono elementi complementari e inseparabili,” spiega. Tagliarsi con rasoi, farsi avvolgere da serpenti, spezzare bicchieri con le mani, frustarsi, stare nuda sdraiata sul ghiaccio, svenire per il fumo dentro una stella dai contorni infuocati, star seduta per ore immobile fissando qualcuno, abitare in un box senza pareti potendo solo bere acqua davanti ai visitatori di una galleria; o ancora: spazzolare femori di bovino cercando per tre giorni di pulirli dai brandelli di carne (con questa performance, “Balkan Baroque”, ha vinto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel ‘97). Tutto questo davanti al pubblico, in uno scambio continuo di energie e motivazioni, con gli spettatori che finiscono per sentirsi a tal punto parte della performance da diventare tifosi, non semplici appassionati come capita con altre forme d’arte.

Dopo più di quarant’anni di carriera, Marina Abramovic è in una fase di grande creatività, consacrata da un successo che tracima dal campo dell’arte per trasformarla ormai in una celeb in sé e per sé. La performance in cui abitava nel box appeso alle pareti di una galleria newyorchese è finita in una puntata del serial di Sex & the city; Lady Gaga, in un video cliccatissimo su YouTube, dichiara la propria devozione al suo culto; l’anno scorso, la maratona Abramovic “The artist  is present” al MoMA di New York ha prodotto 500.000 visitatori, di cui ben 1.400 si sono avvicendati al tavolo dov’è rimasta seduta per 700 ore, senza muoversi, limitandosi a guardare, a sua volta guardata. Inoltre, il film di Matthew Akers sulla sua vita e sulla performance del MoMA ha vinto il premio di miglior documentario al Festival di Berlino. E ora la Abramovic arriva a Milano con un nuovo lavoro, che “gioca sull’espansione energetica della percezione”. Dal 21 marzo al 10 giugno sarà al PAC con “The Abramovic method”, una mostra e una performance basata sulle tre posizioni basilari del corpo umano (seduto, in piedi, sdraiato) e sull’interazione tra artista, pubblico, materiali, spazio e tempo. In pratica, la summa della sua riflessione artistica. Il 22 marzo, al cinema Apollo verrà proiettato “Marina Abramovic. The artist is present”, il documentario di Akers mentre il 20 marzo alla Galleria Lia Rumma si inaugurerà una seconda mostra sui suoi lavori.

Abbiamo incontrato Marina a casa sua, un loft al terzo piano di un edificio di Soho, a Manhattan, dove si era trasferita nel 2002 con Paolo Canevari, un grande amore ormai finito (ma non dimenticato). Il cognome sul citofono, tre piani di scale ripide senza ascensore, un grande spazio che ha al centro una cucina apparentemente poco utilizzata (nel frigo, acqua e poco altro), un vogatore che Marina usa ogni giorno. Pochi oggetti, qualche libro, un altarino con foto di un prozio patriarca della chiesa ortodossa, del suo cane Alba morto tanti anni fa, del maresciallo Tito con la moglie (la Abramovic è serba), di lei con Paolo. Nello spazio campeggiano quattro grandi pacchi di Costume National. Marina è orgogliosa dei suoi nuovi vestiti, che appoggia sul bancone della cucina per mostrarmeli. Cresciuta a Belgrado, nel tetro ascetismo comunista, la diverte la frivolezza ed è entusiasta di finire sulle copertine dei giornali di moda, non solo su quelli d’arte. Mi mostra le pagine di Harper’s Bazaar dov’è fotografata con abiti del suo amico Riccardo Tisci, lo stilista di Givenchy. “Quanti artisti conosci che finiscono sulle pagine dei fashion magazin di tutto il mondo?”.

Il personaggio Marina Abramovic è così di moda che sui giornali non finisce solo lei, ma anche la nuova casa in cui sta per trasferirsi (“Questa, la mia prima casa dopo Amsterdam, la lascio con tutti i mobili:io non voglio tenere niente, mi piace ripartire dal bianco”). La nuova casa è “una townhouse a King Street, tutta vetrate, molto concettuale, con un giardino”. Mi mostra anche le foto di un’altra dimora, che ha comprato vicino aHudson, a un paio d’ore da New York. È una grande e suggestiva villa di campagna, con pianta a stella, dove tiene tutto il suo archivio. Lì vicino ha preso in affitto un ex teatro che ha trasformato in istituto di performing art, “un luogo per i giovani artisti”. Le chiedo quale consideri sua vera casa, New York o Hudson. “La mia casa è il mio corpo. Io cambio luoghi come cambio un paio di scarpe. Sono totalmente nomade. Posso vivere ovunque. Ma sono molto brava negli affari immobiliari!” aggiunge divertita, prima di spiegarmi i dettagli di una compravendita fortunata. È coinvolgente e molto socievole, come fosse un’altra persona rispetto all’artista ieratica e concentrata su di sé delle performance.

Le chiedo delle sue due grandi storie d’amore. Dodici anni col fotografo tedesco Ulay, con cui ha vissuto una simbiosi artistica e sentimentale (“Lo amavo tanto da non riuscire a respirare”), finiti poi in un decennio di conflitti; e altri dodici con l’artista italiano Paolo Canevari. Uomini pacati e riservati, mentre lei è entusiasta, volitiva, comunicativa. Non temi che la tua vitalità risulti dispotica e che i tuoi uomini si sentano schiacciati? “Io dò amore incondizionato. Ma è stato difficile far accettare il mio successo. Non ci sono riuscita. Molti interpretano la generosità come qualcosa di tirannico e opprimente”.  Ti manca un nuovo amore? “Non ho tempo, adesso. È importante sapere qual è il proprio ruolo nella vita. Io ho delle motivazioni fortissime e molti progetti. La realtà è che la mia vita privata non conta, perché la nostra esistenza è breve, mentre l’arte dura molto più a lungo”.

Ha un corpo sodo e molto attraente. Le chiedo se le siano rimaste cicatrici dalle performance. “Sì, dappertutto! È magnifico, è la vita. Io mi sento piena di salute. E non fumo, non bevo, faccio ginnastica,” dice mostrandomi i segni divertita, come fosse un gioco. Ti senti sexy? “Lo sono!”.

Marina ha dichiarato: “Quando arrivo al limite della resistenza mi sento incredibilmente viva”. Le chiedo se sia ancora così, se non si sia stancata di cercare quel limite. “Nessuna stanchezza. Sin dall’inizio mi sono resa conto che il soggetto e l’oggetto del mio lavoro era il mio corpo, e sono diventata una performance artist. Erano gli anni ’70 ed è stato molto duro. Un po’ come essere la prima donna a camminare sulla luna. Allora si trattava di una prateria inesplorata. Oggi, dopo quarant’anni, faccio il possibile per creare situazioni in cui le performance siano mainstream art, e voglio aiutare i giovani a dedicarvisi”.

In luglio, all’International Festival di Manchester, Marina ha interpretato se stessa in una produzione teatrale di Bob Wilson, “The life and death of Marina Abramovic”. Al centro dello spettacolo, la sua vita, a partire dall’infanzia a Belgrado. Le performance sono gesti artistici irripetibili, non hanno repliche. Le chiedo come si trovi nel ruolo di attrice, costretta a recitare un copione sempre uguale durante la tournée. “È uno spettacolo molto costoso (una produzione da due milioni di euro), in cui recito con Willem Dafoe, e le musiche sono di Antony di Antony and the Johnsons. Fonde musica, teatro e cinema, molto pazzo ed emozionante. Ne sono fiera. E vuoi sapere una cosa? Ho dedicato lo spettacolo a Paolo. Speravo che sarebbe venuto, e invece niente. Comunque la prossima tappa è in aprile, a Madrid. Poi seguirò la tournée europea, almeno per un po’. Ma Bob [Wilson] mi ha detto di non preoccuparmi. Quando sarò stanca, mi vuole sostituire con Sharon Stone”.

Stando vicino a Marina Abramovic, si nota il suo grande potere di attrarre le persone e la sua necessità di ricevere attenzione Come molte donne cresciute nel comunismo reale dei paesi dell’est, tra uomini avvinazzati, pigri, o di bestiale ferocia, ha il piglio volitivo del capo famiglia, di chi è abituato a prendere in mano la situazione anziché lamentarsi. Se volete saperne di più su questa donna sbalorditiva, che dagli anni ‘70 a oggi ha lavorato a costruire una propria mitografia, senza distrazioni, con forza e determinazione visionarie; e se volete saperne di più sulla sua arte e anche sull’artistico modo con cui si lasciò con Ulay, modo che doveva culminare con un matrimonio e invece suggellò una rottura (nel 1989, lui dal deserto dei Gobi, lei dal mar Giallo camminarono lungo la Grande Muraglia per 90 giorni e 2500 chilometri ciascuno – a lei il percorso più duro, sui monti – fino all’incontro in cui si dissero addio); se questi minimi dettagli su una persona che ha avuto una vita incredibilmente ricca vi hanno incuriosito, non vi resta che leggere “Quando Marina Abramovic morirà” (di James Westcott, Johan & Levi editore), la sua biografia avvincente quanto una fiction per la gran quantità di accadimenti, di amori, di performance estreme, di esperienze e viaggi che racconta. Il titolo è dovuto al fatto che Marina ha voluto che il libro si aprisse con le sue disposizioni per il funerale, dettaglio che la dice lunga sulla sua concezione della vita: una lunga performance, funerale incluso.