Cercate qualcosa?” chiede l’uomo, piegandosi verso il finestrino dell’auto.
“Fuksas. Abbiamo un appuntamento con Fuksas”, risponde Massimo Sestini, il fotografo.
“Fuksas chi?” dice la guardia giurata della Fiera di Milano.
Non è una battuta: è successo sul serio. L’appuntamento con Fuksas era esattamente sotto il logo del suo “Nuovo Polo [sic!] Fieristico”, dove tornava per la prima volta dopo la tanto discussa giornata inaugurale. I giornali, benché impegnati a seguire le traversie papaline, avevano dato grandissimo risalto alla notizia dell’inaugurazione e a quella del gran rifiuto di Fuksas a parteciparvi. Possibile che ci fosse ancora qualcuno che ignorava il nome del bellicoso architetto?
“Fuksas chi?” chiede dunque la guardia giurata. “Il progettista della Fiera!” diciamo in coro. Lui lancia uno sguardo interrogativo a un suo collega, che alza le spalle, perplesso. “Ah… va bene, va bene” dice sbrigativo, e ci lascia lì ad aspettare tra ruspe e viavai di camion.
Difficile capirci qualcosa, senza una visione dall’alto: quel che si nota, arrivando, è un immenso cantiere piazzato nel mezzo di una zona che più brutta non si può. Pianura periferica industriale, né città né campagna, ciminiere e palazzine, svincoli e squarci nelle recinzioni. Fuksas situa questo brandello di civiltà industriale in quella che definisce “megalopoli”, cioè un agglomerato che dal Piemonte al Veneto forma un’unica grande città, una specie di Città del Messico cui manca solo d’esser definita da un unico nome.
Ma tutto lo squallore esterno, aggravato dal fatto che i lavori sono ancora in corso e che al completamento dell’NPF mancano allacciamenti, strade e parcheggi, cessa d’incanto nel varcare la soglia dell’ingresso principale. Quel che appare da fuori non rivela nulla del dentro – e questo nella più tipica tradizione lombarda. Il montarozzo in vetro che si nota sul piazzale d’ingresso, una sorta di spumiglia acefala, appena entri ti fa sentire come nel risucchio di un’onda. Dall’esterno appare come una trovata di quelle che cercano di dare un po’ di movimento al banale lindore geometrico di un aeroporto moderno, dall’interno ti fa sentire dentro un fluido che trascina, come un bambino che si tuffa nei cavalloni. Lì ti rendi conto d’essere nella fiera dei prodigi: non solo la più grande del mondo, e la più veloce nell’esser progettata e costruita, ma anche la più affascinante. E questa sensazione di essere al cospetto di qualcosa di unico ti viene con la tipica certezza di chi non ne sa molto e tuttavia è certo di non avere bisogno di confronti. Come di chi riconosca al primo sguardo, in un certo alberghetto sulla spiaggia, il luogo dove vuole trascorrere le sue future vacanze: pur senza averne visti molti altri già sente d’essere incappato nel migliore che c’è.
Merito del progettista, la forza di questa sensazione. Fuksas, del resto, mentre mi scorta nella visita al cantiere, non fa che usare la parola “emozioni”. Infervorato nel mostrare la gran quantità di giochi di luce creata dall’ormai celebratissima “vela”, si spiega usando principalmente un linguaggio cinematografico (“Immaginatelo con un dolly”, “Questo è basato sulla tecnica di montaggio del cinema”, e persino “It’s a movie!”). A volte il suo teorizzare assume parvenze filosofiche (“Quest’architettura si comprende tramite il doppio, il reale e l’illusorio, il dualismo tipico della realtà urbana”, e “Questo non è un non luogo ma un luogo riconoscibile”), ma la fase teorica dura poco, e in un momento si ripiomba in quella emotiva: “Qui c’è un’alternanza tra cose semplici e complesse, ci sono dei momenti di riposo dell’emozione”.
In pratica, varcato l’ingresso e superata quella sorta di mulinello nella corrente, ci trova di fronte alle scale che conducono a una passerella lunga un chilometro e mezzo e larga come un boulevard. Sopra la passerella, dotata di tapis roulant, a collegare quelle che nelle foto aeree risultano essere due file di capannoni cubitali c’è una sorta di pensilina in vetro, che lambisce i tetti e le superfici degli edifici senza mai toccarli, e che più che una vela a me ricorda, proprio per la leggerezza che la muove e la fa vibrare, il fermo-immagine di un nastro lanciato in aria da una ginnasta. In pratica è un soffitto di vetro ritagliato a spicchi tenuti insieme da una leggerissima intelaiatura metallica, che produce suggestivi giochi di luce sui pavimenti della passerella e su quelli sottostanti del piano terra. Qua e là, i sostegni della vela, simili a scivoli da acquafan, finiscono in laghetti cristallini, con il fondo di ciottoli neri di pietra lavica. Anche qui, nell’acqua, è tutto un tremolio di luci, e l’effetto della rifrazione è innegabilmente suggestivo. Anzi, lo è a tal punto che mi chiedo come potranno i visitatori della Fiera, nelle torride giornate estive della pianura lombarda, resistere al desiderio di mettere i piedi a sbollire in quei ritagli di acqua palpitante. Perché tra un cammina qui e uno lì, tra un guarda quest’effetto e un guarda l’altro, si finisce per percorrere chilometri e chilometri, appunto come nei grandi aeroporti.
Oltre ai padiglioni dove si svolgeranno le fiere e alla passerella coperta dalla vela, Fuksas ha ideato delle costruzioni più piccole: a fagiolo, per ospitare i ristoranti; a cubo, gli uffici e gli show room; a coleottero (o navicella spaziale), le sale riunioni. Gli stessi padiglioni, pur nel rispetto di una funzionalità di carattere industriale, sono stati ideati con qualche dettaglio creativo che gli dona un tocco d’unicità, come i suggestivi lucernari fatti di due ellissi sovrapposte. A parte poche pareti color rosso Ferrari (o, a questo punto, un più vincente rosso-Fuksas), i colori sono tutti sui toni dell’acciaio e del ghiaccio, quindi la sensazione di riverbero è considerevole: dopo un’ora di avanti e indietro lungo la passerella, mi sentivo la fronte bolliree ringraziavo la mia buona stella d’essermi ricordata di portare gli occhiali da sole.
La passeggiata sarà aperta al pubblico non pagante, cosicché i cittadini potranno venire a far quattro passi lì anziché lungo le strade trafficate. Il sogno di Fuksas è che diventi una sorta di cittadella sempre aperta, con negozi e librerie, oltre ai ristoranti che, purtroppo, sono già tutti appaltati a catene tipo “Spizzico”. Per un luogo che accoglie un’umanità straordinariamente varia, sarebbe stato meglio offrire un maggior assortimento qualitativo, dal ristorante etnico a quello chic – “Questo livellamento dell’offerta è roba da comunismo!” si lamenta l’architetto, caro amico di Fausto Bertinotti.
Durante la visita, orrendi pupazzi fluttuanti ostacolavano il perdersi dello sguardo: creati in carta plasticata dai colori sgargianti e con dimensioni da monumento equestre, dovevano rappresentare gli “stereotipi delle persone che animano le città”, ma somigliavano più che altro a baracconate da Oktoberfest: opere dell’artista mega-pop Klaus Pobitzer da Vipiteno, installate per la prima delle tre “inaugurazioni funzionali” previste dal piano operativo e soprattutto da quello finanziario. A festeggiamenti terminati, i “mega-abitanti” sono stati fortunatamente smantellati da squadre d’operai che con la gru andavano a recidere i fili che li ancoravano alla vela, mentre Fuksas, polemico e orgoglioso, borbottava: “Se l’architettura è forte, è in grado di sopportare anche la robaccia, dalle fioriere di plastica ai cartelloni pubblicitari”. Invece al comune cittadino, che mi sentivo meritatamente di impersonare, veniva la curiosità di capire chi mai avesse decretato la necessità di un simile vacuo orpello.
Polemica per polemica: dopo aver letto tutte le interviste rilasciate da Fuksas sui motivi della sua assenza alla prima inaugurazione (la seconda avverrà a settembre, e la terza – definitiva – sarà a gennaio 2006); dopo aver ridacchiato alle dichiarazioni del premier sul cuore a destra e il portafoglio a sinistra (con mezza sinistra che esclama: “Perché, dovete guadagnare solo voi?”); e dopo un pomeriggio passato con l’architetto romano (ma lui preferisce far valere la metà sangue lituana) a commentare i lavori ultimati e quelli ancora in corso,credo d’aver capito il vero motivo di tanta furia polemica. S’è trattato di un problema d’orgoglio artistico ferito: l’assenza del nome del progettista dal cartoncino d’invito è diventata una questione “più che politica, di politica culturale”, come ha detto lo stesso Fuksas. Che però ho salutato mentre ritirava, tutto orgoglioso, una busta con le foto della festa d’inaugurazione cui, a dispetto delle polemiche, sono intervenute trentamila persone. E un’altra busta piena di francobolli celebrativi del NPF. “E’ la prima volta che un’opera d’architettura contemporanea diventa francobollo. E con l’architetto ancora in vita!” ha esclamato.
Sotto il disegnino della Fiera è stampato il suo nome: tra polemiche e francobolli, si può dire che ormai solo le guardie giurate non l’abbiano sentito nominare.