Dire che sono ordinato è dir poco. Non mi piace avere cose intorno. Mi disfo di tutto. Nella casa di Milano ho tolto persino il bagno.
Anche il water?
No, quello no, resiste in un metro quadrato dietro una porta. Ma la vasca da bagno è accanto al letto. Più un sarcofago, che una vasca. Nelle mie case l’unico arredo è un tavolo, un letto, una sedia.
Com’è la sua vita di artista? Beve, fa l’alba, è sregolato?
Bevo solo nel fine settimana. Niente vino o birra. Vodka liscia, cercando di evitare i cerchi alla testa. Mi ubriaco di lavoro. Mai di alcol. E poi faccio una vita normale, anche a New York. Mi alzo alle 5 e mezzo del mattino. Vado in piscina. Sono una persona noiosa e per concentrarmi e lavorare mi sono dato una regola. Mi piacerebbe avere una vita di imprevisti. Mi auguro che mi accada dopo il Guggenheim.
Per stupire con le proprie insubordinazioni (simboliche) ci vuole una regola e anche uno stile. Così è la vita di Maurizio Cattelan, l’artista italiano vivente più quotato del mondo, che sta per essere consacrato da una retrospettiva di 130 sue opere al Guggenheim Museum di New York (dal 4 novembre 2011 al 22 gennaio 2012). Nel frattempo due libri lo raccontano per filo e per segno. “Un salto nel vuoto”, una lunga intervista di Catherine Grenier, condirettrice del Centro Pompidou di Parigi (Rizzoli, dal 26 ottobre); e “All”, una monografia curata da Nancy Spector, vicedirettore e curatore della Guggenheim Foundation (Skira). Se poi vi prendesse l’ansia di saperne ancora di più, esiste persino una “Autobiografia non autorizzata”, del critico Francesco Bonami. Ecco cosa ne pensa l’artista: Un giorno Bonami mi ha chiamato e mi ha detto “Guarda che ho scritto un libro su di te”. Ne ho letto un paio di capitoli. Devo dire che ha molta fantasia.
Lei è di Padova. Cattèlan, come dicono tutti, o Cattelàn, come sarebbe più logico?
Non so.
Be’, ma a scuola?
Lo storpiavano.
E suo padre, come lo pronunciava?
Mio padre diceva solo “Vieni qui, vai là”.
Partiamo dalle origini. Prima che la sua opera di infaticabile pertubatore la portasse a diventare così celebre, lei ha avuto un percorso esistenziale inconsueto, all’americana. Né aiuti, né buoni studi, né tradizione di famiglia. Ci riassume le tappe?
Papà camionista, mamma donna delle pulizie, malata. A tredici anni vendevo souvenir e santini nella basilica di S. Antonio, poi ho lavorato in una lavanderia automatica. A diciassette sono andato a vivere da solo. Per mantenermi facevo l’infermiere. Lavoravo tutto il giorno e la sera frequentavo il serale dell’istituto tecnico. Di tutti i lavori che ho fatto, l’infermiere è il preferito. Per via del rapporto umano coi malati. Poi ho cercato qualcosa di meno impegnativo. Sorvegliante addetto alla raccolta dei rifiuti. Finivo alle due del pomeriggio: lì ho assaggiato la libertà. Infine l’obitorio: portare, lavare, vestire i cadaveri. Di tutti i lavori il più sereno. Non c’era il coinvolgimento emotivo col paziente. Forse mi sono spinto fin lì, all’ultimo stadio, per essere costretto a cambiare. A venticinque anni ce l’ho fatta: ho smesso di lavorare.
Com’è andata?
Non ce la facevo più: la necessità di lavorare, per sostentarmi, si è trasformata un po’ alla volta in autolesionismo. Avevo una lametta in tasca e mi tagliavo le dita, per poter andare al pronto soccorso e avere dei giorni di malattia. Poi partivo subito per Amsterdam, che era la Bologna del nord. Lì ho scoperto il mondo degli artisti che occupavano fabbriche abbandonate. Avevo la mia bicicletta, li seguivo, li osservavo per ore, iniziavo a fare delle serigrafie. Poi tornavo a casa e all’obitorio, e dopo una settimana mi tagliavo di nuovo con la lametta. Non poteva durare. Un giorno, il più importante della mia vita, mi sono licenziato. E ho deciso che non avrei mai più lavorato. Ci sono voluti dieci anni per correggere l’educazione sbagliata ricevuta dalla mia famiglia: il lavoro visto come strumento per sopravvivere. Io invece volevo un lavoro che servisse a emanciparmi.
Poi, i primi lavori di artista, il successo in Italia, la necessità di dare un respiro internazionale al suo lavoro, il trasferimento a New York, nel ’93. Vent’anni di carriera all’insegna di una meditazione al contempo scherzosa e profonda. Sempre accompagnata da una gran quantità di polemiche. Da quelle per i bambini-fantoccio impiccati a una pianta, a Milano, a quelle per Nona ora,la sua opera con il papa abbattuto da un meteorite, per finire con Love, la mano cui resta solo un dito medio, installata davanti alla Borsa di Milano. Si è sentito solo, in questi anni?
No, non mi sono mai sentito solo. Produco cose che interagiscono col pubblico, e ultimamente anche coi media. Le critiche e le polemiche non mi compromettono emotivamente. Non mi piace un lavoro che non produce una risposta. Se è un buon lavoro deve essere in grado di farsi amici e nemici. Solo quando non si è sicuri si è molto sensibili alle critiche. Però, di solito, se non sono sicuro, il lavoro non esce. Prima ci penso talmente tante di quelle volte…
E le donne? È famosa la sua storia con Victoria Cabello, e anche quella di tanti anni fa con Vanessa Beecroft. Dev’essere difficile fidanzarsi con lei, se in casa tiene solo una sedia. Non si trova un posto dove mettersi.
La mia vita è fatta di abitudini e di un’ossessione. Lo dico sempre alle donne: non devi essere gelosa di altre ma del mio lavoro. Io abito dove lavoro, e non puoi venire quando vuoi, spiegavo a Victoria. Io non vengo in studio da te all’improvviso. Con Victoria, finché lei era ancora all’Accademia tutto andava bene, ma poi è sorta una rivalità. Devono piacerti le opere della persona con cui stai, se no non può funzionare. E poi lei ha sempre avuto un problema con la sua italianità. Del resto anche io cerco di non frequentare gli italiani all’estero.
È innamorato?
Lo sono stato. Bei tempi, quelli.
Siamo a Milano, alla trattoria Il Carpaccio, dove Cattelan va spesso a ora di pranzo, quando è in città. Prima lo si trova alla piscina Cozzi. Gira in bicicletta. È un uomo in forma, gentile, dall’aspetto normale. Niente pigiami alla Julian Schnabel o completini “Mad men” come Jeff Koons. È timido: di solito non ti guarda in faccia, e quando si comincia a parlargli di amore e fidanzate è visibilmente in imbarazzo. Smette di mangiare, il coltello che impugna con la sinistra rimane sospeso nell’aria… ma alla fine sta al gioco.
Che donne le piacciono?
Grosse, grandi, generose. Creative e devono saper far ridere. Comunque con le donne il problema non è il durante, ma il dopo. Devono essere indipendenti. E poi dipende dai periodi. Quando sei intasato di lavoro vuoi degli accessori. Quando sei stressato vuoi la compagna che ti capisce e ti dice che ce la farai. Quando sei libero vuoi la famiglia. Comunque nel lavoro e nella vita sono sempre stato sposizionato, nel posto sbagliato.. e per amore ho sempre sofferto, moltissimo.
Il quartiere di Chelsea, dove abita, è pieno di gallerie. Si sente assediato dalle groupies dell’arte, quelle che Tom Wolfe chiama “art birds”?
Ora le chiamano “gallerinas”. Vado a vedere molte mostre, ma a New York non capita di essere assaltati. Torno sempre a casa da solo! Vedo quattro o cinque persone in tutto. Qualche volta a Milano invece mi succede di percepire il disturbo di essere famoso. Intravedo il plus del martirio.
Va alle mostre e nei musei?
Sì, l’ho sempre fatto. Un colpo alla volta ho preso tutto quello che c’era da imparare dagli altri. Vado alle mostre e prendo quello che c’è da prendere.
Chi è il suo gallerista di fiducia?
Me stesso. Pochissime mostre e tanta visibilità.
Come si rapporta ai suoi colleghi altrettanto quotati, Koons e Hirst, per esempio?
Non ho nessuna voglia di essere come loro. Koons ha 150 dipendenti.
È vero che non realizza un’opera da due anni?
Sì. Obiettivamente se non c’è un committente o un museo che mi chiama non è che mi metto a produrre nuove opere. E ora ho deciso di smettere. Dopo questa retrospettiva del Guggenheim voglio prendere una pausa, che da come la vedo è definitiva. Alla fine: per quanto tempo dobbiamo dimostrare chi siamo? Personalmente so chi sono, cosa sono in grado di fare e cosa no.
È molto ricco?
Potrei diventare povero. Non sono come Jasper Jones che ha il 90 per cento delle proprie opere. Possiedo pochissimi miei lavori. Stupidamente non ho lavorato per il futuro. Magari, adesso, se reinizio, potrei iniziare da pittore. Non so disegnare ma posso far dipingere qualcun altro. Del resto il più bravo scalatore del mondo è senza una gamba. Vivo con poco e non mi sono dimenticato da dove sono arrivato.
Felice di questa mostra-consacrazione in cui è riuscito a ottenere che tutti i suoi lavori siano appesi/impiccati al soffitto?
Sì, ma forse mi sarebbe piaciuto di più farla al Metropolitan, in mezzo alla storia, magari accanto a un fregio assiro. Posizionare i lavori è altrettanto importante della galleria dove esponi. Ho detto di no a tante personali, sinora, anche prestigiose. Al Moca di Los Angeles, al Walker di Minneapolis, e al Pompidou – fare una mostra lì è come andare al Carrefour. Io non scelgo il posto per la quantità di audience (due milioni di visitatori!) ma per come i lavori vengono presentati.
A questo punto si sente italiano o americano?
In Italia torno volentieri per mangiare. Se potessi non abiterei a Milano, ma Roma, a Napoli, a Palermo. Il nord è troppo calvinista. All’inizio del primo governo Berlusconi avevo quasi pensato di chiedere asilo politico agli Stati Uniti! Ma la realtà è che non sono né italiano né americano, sono l’emblema di un globalismo anticipato. Il problema ormai è: dove paghi le tasse? Si lavora orizzontali, in una sorta di superatmosfera. A chi appartiene il nostro lavoro?
Viene spesso in Italia?
Utimamente sì, per seguire il progetto della rivista “Toilet Paper”, un lavoro di gruppo di cui mi piace la libertà espressiva. E poi quest’estate ho passato un mese a Filicudi. Sono andato da solo, e tornato da solo. Dopo due settimane senza regole mi sono stufato. Giravo l’isola e pensavo alla sua non-estetica architettonica. A Filicudi non c’è uno stile locale ma c’è un fenomeno di abusivismo che non si vede. I muretti a secco nascondono case, ed è bellissimo. Il vero architetto di quest’isola è l’abusivismo, ed è un bravo architetto. Impatto ambientale zero. È un fenomeno interessante.
Cosa le manca dell’Italia, quando è via?
Il cibo italiano. A New York si trova quasi tutto, e rimane la mia città preferita. Ma diverse offerte di mostre in giro per gli Stati Uniti le ho rifiutate per via del cibo. Riesco a resistere solo due o tre giorni al massimo, in giro per l’America.
Ha paura del futuro?
Mi fa più paura il passato che ho avuto. Il futuro è tutto da scrivere.