La fama di regista impegnato e vagamente ipocondriaco non gli rende giustizia: da vicino Mimmo Calopresti è un bel cinquantenne coi capelli grigi e il fisico da ragazzo. E, soprattutto, sorride, parla volentieri e con passione dei propri sentimenti, mentre non fa cenno ad argomenti di politica e di valori civili. Così, pronta a estenuanti chiacchiere sui massimi sistemi, finisco invece per sentirmi raccontare la vita di un uomo dal punto di vista dei fatti, delle sensazioni, della curiosità emotiva. Parlando ad esempio della sua storia d’amore più nota, quella con l’attrice Valeria Bruni Tedeschi (iniziata poco più di dieci anni fa sul set di La seconda volta, il suo film d’esordio come regista), Calopresti racconta con toni intimi e umani uno spaccato sociale: “Siamo stati insieme per sei anni. Valeria è decisamente nevrotica ed è stato tutto faticosissimo. Avevamo litigi continui, anche davanti alla famiglia di lei. Sua sorella a un certo punto ci detestava: diceva che sembravamo Liz Taylor e Richard Burton”. La sorella è l’indossatrice-cantautrice Carla Bruni. “Con i Bruni Tedeschi ho passato tanto tempo: sono una famiglia molto unita e stanno sempre insieme. Io, figlio di un operaio della Fiat, ero affascinato dalla bellezza di cui si circondavano, dalle loro case stupende a Parigi e in Costa Azzurra, dalla loro cultura, dai quadri, dalla musica, dalle conversazioni. Poi, di fatto, noi due litigavamo sempre: io ero duro con quel mondo che pure mi attraeva, Valeria era piena di sensi di colpa per la sua condizione di privilegiata. Adesso, quando le dico che sono diventato conservatore, lei si spaventa: ‘Non voterai mica a destra?’”.
Il padre di Calopresti, prima di emigrare da Polistena, in Calabria, faceva il sarto. Continuò anche a Torino, ma solo nel tempo libero: “Quando tornava a casa tagliava e disegnava sul tavolo da sarto: ricordo ancora le sue forbicione e il ferro da stiro col carbone dentro. Il mondo della sartoria mi attira molto, e in un certo senso mi diverte. Per esempio mi fa molta simpatia Armani, che alla sua età ancora si danna a organizzare le sfilate”.
In casa Calopresti si parlava solo in dialetto: “Sono un autodidatta: nessuno mi ha mai detto cosa leggere, i libri me li sono sempre comprati da solo. Per questo ero molto attratto dal mondo dei ricchi: mi piaceva vedere le loro case, guardare cosa mangiano e come sono serviti in tavola, che libri hanno, di cosa parlano, dove vanno a sciare. E a loro volta i ricchi torinesi, sorta di aristocrazia intellettuale di sinistra, trovavano altrettanto interessante me, figlio di un operaio della Fiat, ovviamente emigrante e quindi ‘tipico’”.
Dopo cinque film da regista (l’ultimo, nel 2006, Volevo solo vivere, è un documentario sulla Shoah), quest’anno Mimmo Calopresti ha altre due importanti novità: in ottobre inizierà a girare il suo nuovo film, L’ultima abbuffata, una commedia nel cui cast ci saranno Chiara Mastroianni, Gerard Depardieu, Diego Abatantuono. E’ la storia di un gruppo di ragazzini calabresi che sognano di fare un film e si mettono in contatto con una star del cinema, sperando che li aiuti.
L’altra novità è l’incarico di direttore artistico della “Scuola del documentario”, ideata e finanziata dall’Istituto Luce e dalla Città della Scienza di Napoli. Venti ragazzi ogni anno, alcuni con borse di studio: “Cercherò di evitare che diventi l’ennesima scuola inutile. L’importante è mettere in condizione gli studenti di realizzare qualcosa, dargli dei mezzi produttivi. E non ci sarà un corso di regia, perché sarebbe tempo perso: dal punto di vista tecnico, i registi non hanno niente da insegnare a nessuno. La regia è una cosa istintiva, e il regista è soprattutto uno che mette insieme un progetto, rende realizzabile un’idea. In passato ho tenuto dei corsi di cinema all’università di Roma, alla Sapienza, e trovarmi immerso in quell’università di massa per cui a suo tempo avevo tanto lottato mi ha deluso enormemente. Mi sembravano tutti una banda di pazzi: branchi di ragazzi e docenti che si aggiravano inutilmente per i corridoi”.
Finalmente una scuola che pare nascere all’insegna dell’antiretorica.