A detta di un suo conoscente, Piero Chiambretti “è un uomo che ride per lamentarsi”. Una definizione azzeccata? Sì e no. Perché Chiambretti ride anche per polemizzare. O per sfottere. O per depistare. Mai solo per ridere. Per esempio quando mi dice che la sua trasmissione, Chiambretti night – Solo per numeri uno, gode di ottima salute, le sue sono risate di rivincita. Anziché chiudere il 19 marzo, gli sono state concesse altre 6 puntate, fino al 9 aprile. “Chi semina raccoglie. Quando una trasmissione viene spostata da un canale all’altro (da Italia 1 a Canale 5) e dai giorni feriali al fine settimana, e ciononostante aumenta di 3 o 4 punti sull’edizione precedente…” “è un risultato da numeri uno”, concludo io, per togliergli l’imbarazzo di dirselo da solo. E lui: “ Ho attraversato tutto l’arco costituzionale di Mediaset. Adesso sto puntando al Tg4… Ma temo che siamo in troppi!”.
Nel frattempo, più che il Tg4, pare che a Mediaset stiano pensando di affidargli l’ambita prima serata. “Dopo tanti anni di cantina del palinsesto – coi vini pregiati,” precisa, “è arrivato il momento provare nuove scommesse.”
La prossima scommessa televisiva di Chiambretti coinciderà coi primi mesi di vita di sua figlia (lo sbarco è previsto in maggio). Lui che è sempre stato al centro di tutto, lui il figlio unico di madre single, lui il genietto degli show, tra un paio di mesi dovrà cominciare a sentirsi padre e quindi a rinunciare ai privilegi della propria singolarità. Gli chiedo se deciderà di lasciare Torino per trasferirsi a Parma, città dove abita la ragazza che sta per renderlo padre e dove sta preparando una nuova casa: “Be’, non è ancora detto. Ma certamente vorrò essere un bravo padre. Sto facendo un corso accelerato con alcuni libri che mi sono stati gentilmente regalati dagli amici. Sono manuali scritti molto bene, da psicologi dell’infanzia o da saggisti. Libri sicuramente utili. Dalla lettura viene fuori la difficoltà di essere padre, roba che al confronto fare televisione è come andare al luna park”.
Chiambretti scriverà un libro, come ormai chiunque lavori nello spettacolo? “Per carità. Io già mi sono esposto su altri territori che non conoscevo, facendo un film (Ogni lasciato è perso) che giustamente è andato malissimo, perché era un’esperienza fuori dal mio territorio. È una calamità naturale questa mania di diversificare. Meglio fare bene una cosa sola, lo posso consigliare a chi comincia”. Come mai il film non è andato bene? “Il fallimento è dovuto al fatto che era una sorta di sfogo creativo, conseguenza di un abbandono (la sua ragazza lo lasciò per Gabriele Muccino, ndr). E ho fatto un film drammatico sulle mie sofferenze affettive: un’operazione catastrofica, perché sono visto come uno brillante, come un dissacratore, e invece nel film mi si vede piangere per ottanta minuti. Uno sfacelo, che tuttavia rimarrà negli annali. Perché mentre la televisione è come l’acqua, che passa continuamente e non resta, i film sono sempre lì: chiusi in una cassetta o un DVD”. Poi aggiunge: “La realtà è che mi disturba parlare di me. Quando rileggo una mia intervista penso a quello che avrei potuto dire e non ho detto e ci sto male, trovo che sia un tradimento di me stesso. E poi tradisco la mia privacy, anche se uno che fa un lavoro come il mio la privacy non la conosce”. Allora Chiambretti è autocritico, constato. “Io mi detesto e quindi le cattiverie che scrivono i critici televisivi sono niente rispetto a quelle che mi dico io, perché le mie sono molto peggio”.
Una delle critiche che gli muovono è che sia cattivo. Quando glielo dico ci resta male. “Come cattivo? Sono dispettoso, forse. Tutto meno che cattivo. Se per cattivo si intende uno che dice quello che pensa, allora sì, sono cattivo. Ma se si intende uno che fa del male agli altri, be’, io non ho mai fatto male a nessuno. Tant’è vero che proteggo decine di persone che sarebbero disoccupate e invece lavorano con me. Non parlo solo di quelli che vanno in video, anche di quelli dietro le quinte. Ho una figlia in arrivo ma ho anche una quantità di persone di cui mi ritengo responsabile in tutto e per tutto, di loro e delle loro famiglie. Al Chiambretti night siamo come l’arca di Noè: ogni anno imbarchiamo almeno un paio di bisognosi nuovi”. E conclude: “Io non ho una zia suora, sono io la suora!”.
In effetti i programmi di Chiambretti si distinguono per portare alla ribalta persone stralunate e ignote, brave in arti o artifici che diventano interessanti solo nella miscela che lui propone. “Il primo dei miei obiettivi, quando ho cominciato a fare TV alla fine degli anni ’80, era portare sullo schermo quello che non c’era mai stato: la gente comune”. Non lo faceva già la Corrida? “No, perché quelli che arrivavano alla Corrida erano già dei professionisti dell’essere dilettanti: gente che prova tutto il giorno a fare – male – una cosa. Io invece ho sempre proposto figure bizzarre di mondi non conosciuti, che portavano in televisione il non visto. La stessa regola di Renzo Arbore, che è il padre putativo di molti e anche il mio. Ho il vezzo di inventare personaggi non noti. E nella logica di fare cose che non si vedono, un night televisivo come il mio non si era mai visto. È il locale dei miei sogni,” dice ispirato, come avesse inventato la ruota. “Non ne avevo mai visto uno così. Sono stato in locali brutti dove c’era bella musica, in altri bellissimi dove c’era brutta gente, in altri brutti e con brutta musica, in altri perfetti ma non mi lasciavano entrare… Questa è la realizzazione di un sogno. Sono diventato il proprietario di un locale. Mentre ne disegnavo gli spazi, mi dicevo: quando questo programma finirà, comprerò la scenografia e allestirò il vero Chiambretti night in un locale, per riempire il vuoto lasciato in televisione”.
A questo punto, con la composta mobilità da fermo che ha mantenuto per più di un’ora, Chiambretti mi fa ascoltare Someone like youdi Adele, prestandomi un singolo auricolare del suo telefono. L’altro lo tiene per sé. Fa un’espressione rapita, cogli occhi chiusi. La canzone è lunga, e la ascolta (la ascoltiamo) sino in fondo. Come un adolescente, innamorato dell’idea dell’amore che esce dalle note musicali. Sullo schermo del suo telefono c’è la foto di una scimmia che ride. “Lei sì che è un numero uno,” dice Pierino, indicandola. “Cominciamo tutti da lì”. Le scimmie ridono per lamentarsi, o c’è di mezzo l’evoluzione della specie?