Camilla Baresani

Sommario

RICCARDO SCAMARCIO e ”Romeo e Giulietta”

- Sette - Corriere della Sera - Interviste

“Carrozzati”. Così il sulfureo Sergio Saviane definiva i ragazzi delle sue zone, le nebbiose plaghe venete, rimasti paralizzati dopo un incidente al ritorno dalla discoteca. Ebbene, Riccardo Scamarcio l’avevo già intervistato cinque anni fa, in una roulotte parcheggiata nel giardino di un ospedale romano, set di Manuale d’amore 2. Interpretava un carrozzato che, grazie all’incontro (e anche qualcosa di più) con la fisioterapista Monica Bellucci, si dimostrava meno invalido del previsto. Ai tempi, non devo averlo colpito, perché quando ci incontriamo mi guarda come se ci vedessimo per la prima volta. C’è una magra consolazione: anche lui, allora, non turbò i miei sogni. Mi era sembrato piccoletto, con gli occhi paludosi e l’aria un po’ gradassa, da seduttore che si esercita persino sui pali della luce per vedere se per caso si pieghino, come un cucchiaio sotto lo sguardo di Uri Geller.

Ma oggi, in una pausa dalle prove di Romeo e Giulietta, a pochi giorni dal debutto al teatro Eliseo di Roma, Scamarcio non mi pare più tanto basso. Si cresce anche dopo i vent’anni? Un medico lo escluderebbe. E gli occhi non li vedo più color palude, quel verdastro da divisa mimetica, bensì di un bell’azzurro vivido, che in contrasto con la carnagione colorita dà un’inquietante e seducente aria mediorientale.
Crescere gli ha giovato. E sta per debuttare in una parte ben più impegnativa di quella del carrozzato che brancica i seni della Bellucci: Romeo, uno dei ruoli più usurati della storia dello spettacolo. Quel Romeo che, al di là delle capacità attoriali, può risultare un fesso o uno stucchevole innamorato o un’occasione commerciale, a seconda della regia e dell’adattamento. È davvero difficile interpretare con freschezza un personaggio di cui quasi chiunque al mondo ha una sua idea, più o meno distorta.
Ed è per questo che Scamarcio passa 6 o 7 ore al giorno provando e riprovando la parte da quasi due mesi. Quando arrivo è sul palcoscenico, e insieme andiamo nel suo camerino, assai spoglio. Appoggiati sulla toilette, un cappellino con paillette e una parrucca di riccioli scuri, uno slippone nero e una cravatta beige. Abiti di scena. Gli chiedo se dunque ci sarà una scena in mutande: “Non so,” dice misterioso. Come gran parte dei trentenni non ha mai visto Romeo e Giulietta a teatro, “ma la fama di questo spettacolo precede ogni sua rappresentazione. Molti hanno visto il film di Zeffirelli o di Luhrmann” (con l’allora poco conosciuto Leonardo Di Caprio).
Hai paura della critica? “Mi dà più ansia il pubblico. E più del pubblico mi dà ansia… me stesso. In una scala di priorità, quello che mi fa più paura sono io,” soggiunge, fissandomi. La sua voce è bella, calda, modulata, senza inflessioni fastidiose. E lui ti guarda sempre dritto in faccia. Mai per terra, o in alto, o di lato, come molti suoi colleghi. Non pare timido. Non hai paura di Franco Cordelli?, mi informo, immaginando il critico del Corriere della Sera esercitare la propria severità sul povero Scamarcio. “Cordelli è quello che ha stroncato Ambra?”, chiede. Annuisco. “Be’, vabbè”. Pausa. Sorride. “Mi è capitato di leggerle ieri queste critiche”. Segui la sua rubrica sul Corriere?, indago. “No, è stato un caso. Sinceramente non sapevo neanche chi fosse”. Glielo spiego. “Di sicuro mi massacra; se mi prende di mira avrà più fama, lo leggeranno di più. Se mi demolisce, certo, mi dispiacerà… Però, caspita, penserò, facevo davvero così schifo?”, dice con uno sguardo che improvvisamente si fa triste. (Cordelli, per favore, non prenda a randellate Scamarcio!). “Il problema dei critici di oggi è che non hanno lo spazio necessario per analizzare un lavoro. Due colonnine per criticare spettacolo attore regista scenografia altri attori… be’, non possono motivare niente, è un limite”. Ne convengo e cambio argomento, prima che magari cambi umore. Gli chiedo cosa legge: “La Repubblica, a volte il Corriere, ma soprattutto blog e siti web, per esempio quello del Fatto quotidiano e Passaparola di Marco Travaglio”. E poi guarda Annozero, Ballarò, e Blob, “programma che più di tutti, in maniera organica e totalmente libera, riesce a fare la sintesi di quello che accade nel nostro paese”. Legge pochissimi libri, ma ha iniziato da poco “una cosa piuttosto impegnativa, un libro grande così”. Il Liber novus di Carl Gustav Jung: “Lui ci ha messo 16 anni per scriverlo e io ho il timore che ci metterò di più per leggerlo. Per il momento sono all’introduzione”. Credi nella psicanalisi?, gli chiedo. Sei mai andato da un’analista? “Credo che il teatro stesso sia terapeutico. La recitazione. Credo che… diciamo che non sono proprio freudiano… nel senso che c’è qualcosa che non si può proprio spiegare…”. Gli dico che basta così. Lo tolgo dall’impiccio di una risposta che si sta aggrovigliando. No, comunque non va dallo psicanalista. E legge Jung per capire se stesso, “per la consapevolezza del proprio io, dell’ego”.
Interpretare Shakespeare non gli ha fatto venir voglia di sfogliare qualche altro lavoro dell’autore inglese. Né commedie né sonetti. Mi dice che torna a casa a pezzi, fisicamente distrutto dopo ore di prove, e poi di notte si sveglia di colpo: “Proprio così, PAM! come non avessi mai dormito. E ho in mente le battute del copione”. Mi scruta, come a cercare umana comprensione: “Forse questo è da psicanalizzare?”. Quasi imbarazzata dall’intensità e dai risvolti di una simile richiesta, fatta proprio a me, sposto lo sguardo dal suo viso (e solo ora, mentre sto scrivendo, mi accorgo che per tutto il tempo dell’intervista non gli ho mai guardato le dita e le unghie, mentre di solito forma e manutenzione sono dettagli che non mi sfuggono). Insomma, sposto lo sguardo e mi accorgo che tiene tra le mani una sigaretta spenta. Che ragazzo educato! Stoicamente gli dico che può fumare, in quello stanzino soffocante, con la finestra che dà su un cavedio dove non gira aria, a una spanna dal mio naso. Mi scopro liberale, conciliante. Quando le donne si offendono perché qualcuno le facilita per la bellezza anziché per altre qualità, bisognerebbe spiegare “l’effetto Scamarcio”. Con molte sfumature, ma ci sono indubbie assonanze comportamentali.
Gli chiedo cosa farebbe se non fosse attore o se non ci fossero più ingaggi. Silenzio, occhi sognanti, perplessità. Cerco di aiutarlo. L’arredatore. No, quello no. L’astronauta? Magari. Alla fine ci arriva. “Prendere una barca a vela e girare il mondo”. Da pochi mesi ha una barca che tiene in Puglia (per chi non lo sapesse, Scamarcio è di Andria). La sua fidanzata, Valeria Golino, ama andare in barca con lui. Due cuori e una vela. Ho letto che Scamarcio avrebbe dichiarato, in occasione della conferenza stampa di Romeo e Giulietta, di averle chiesto un figlio. Altro che crisi, dicevano i giornali. È un classico delle interviste agli attori: parlare sempre di crisi sentimentali; dire che non sono vere. È il modo migliore perché i lettori ci credano. “In realtà,” spiega divertito, “mi hanno chiesto se voglio figli, così, in generale, e io ho detto che sì, certo, sottintendendo un prima o poi”. Parte la tirata contro i giornalisti, senza però toni lamentosi o acri. Cerco di cambiare argomento. Le cronache di questi giorni, che sembrano allestimenti di sceneggiature fellianiane… “Non mi va di correre dietro a questo ‘rutto del niente’,” definizione di Massimo Gramellini che l’ha molto colpito. “Un delirio totale. Lo Stato non è mai stato. Nel senso di essere. Qual è lo Stato che può rappresentare un essere umano in tutte le sue sfaccettature? Non c’è. Per questo leggo Jung. Non voglio essere informato. Mi voglio disinformare”. Ridacchia con un raglio aggraziato. Cosa ti fa paura?, gli chiedo. Invecchiare, ingrassare, essere lasciato, fallire uno spettacolo? “La paura di avere paura,” dice dopo pochi secondi. Ridacchia di nuovo. Vorrei allora sapere quali siano queste sue paure, chissà che non possa aiutarlo. Ma lui rifiuta di svelarle, con fare timido-malizioso-seducente.
È geloso della sua donna. Né accuse né indagini, “non sono un tipo patologico. Ma se qualcosa mi turba divento molto freddo, mi distacco. Non siamo più io-e-te. Siamo io. E te,” dice sottolineando le parole. Poi si preoccupa che la scrittura possa non rendere l’enfasi della dizione. Garantisco che farò del mio meglio.
Droghe e alcol? Sì, ha provato tutto. È anche sprofondato in qualcosa… ma tanti anni fa. Serve parlarne?, gli chiedo. “Parlarne fa sempre bene”. Ma difficilmente impedisce che altri ci caschino. “Sei un cretino se guidi la macchina e sei completamente ubriaco, ma allora lo Stato dovrebbe smettere di guadagnarci i soldi, sull’alcol e sulle sigarette, e bisognerebbe produrre auto che non superino i 140”.
Gli chiedo cosa sia più difficile da recitare: “L’ubriaco. E se ti sbronzi, per essere più naturale, non funziona”. Un’altra cosa molto impegnativa da recitare? Sorride. Ci pensa. “Recitare”, risponde. E sorride di nuovo, guascone. Poi cambia idea: “No, aspetta. La cosa più difficile è NON recitare”.