Il pubblico lo conosce soprattutto per i tanti film famosi che ha interpretato. Citiamone alcuni: Radiofreccia, L’ultimo bacio, Le fate ignoranti, La stanza del figlio, Romanzo criminale, Veloce come il vento, A casa tutti bene… Se poi guardiamo i registi con cui ha lavorato e spesso rilavorato, be’, ci sono Pupi Avati, Gabriele Muccino, Ferzan Özpetek, Nanni Moretti, Michele Placido, Mario Monicelli, Paolo Sorrentino… Una carriera di attore cinematografico come ce ne sono poche, in Italia. Tre anni dopo aver interpretato il suo primo film e dopo essersi diplomato alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna, Stefano Accorsi è stato protagonista dello spot del gelato Maxibon: la tipica cosa che rimane impigliata nella memoria collettiva, per cui la maggior parte di noi immagina che Accorsi abbia iniziato la professione perché è un bel ragazzo, e allora l’hanno ingaggiato per stare su una spiaggia e fare una scenetta pubblicitaria facile facile, e poi si è costruito sul campo, imparando a recitare film dopo film. “È passato il Maxibon. Sono molto contento di averlo fatto e che l’inizio della mia riconoscibilità nasca da lì”, dice serafico, con quell’atteggiamento mite e il tono fatalista e divertito che lo rendono l’attore contemporaneo che più assomiglia all’indimenticabile Marcello Mastroianni. È passato il Maxibon, così poi ci si stupisce quando si va a vederlo a teatro. Ha appena chiuso una tournée di quasi cento date in una quarantina di teatri italiani, portando in scena un’azzeccata sintesi del poema epico dell’Ariosto, “Giocando con Orlando”, con i versi del Furioso adattati da Marco Baliani. Sul palco, dal vivo, Accorsi è sorprendente. L’uso virtuosistico del corpo, da saltimbanco, da clown, la recitazione travolgente, la capacità di fare spettacolo da solo, senza altra messinscena che due cavalli di cartapesta sullo sfondo (opera dell’artista Mimmo Paladino), fanno valutare in modo completamente diverso la storia professionale di questo attore.
Il 18 aprile esce Il campione, un film in cui lei interpreta un professore dolente e carismatico. È un ruolo che sembra scritto apposta per la sua galleria di uomini complessi, fragili, sentimentali.
Il protagonista del film, diretto da Leonardo D’Agostini, è un giovanissimo calciatore scapestrato, un campione che fa parlar di sé in modo negativo, sfascia le macchine, è aggressivo, non ragiona. La squadra di calcio in cui gioca ha un liceo interno, per permettere ai giovani calciatori di arrivare al diploma. Per costringerlo a crescere, il presidente della squadra, Massimo Popolizio, dice ad Andrea Crapanzano, il campione, che se non passa gli esami di maturità non lo farà più giocare. Così, per supportarlo, gli viene affiancato un professore, che sono io. Un uomo con dei trascorsi che lo hanno un po’ disamorato della sua professione. Il campione ribelle e il professore, così lontani per età, formazione e carattere, all’inizio si scontrano, ma a un certo punto qualcosa inizia a legarli.
Come definirebbe questo film? Una storia di amicizia maschile?
Più che altro direi che è come un romanzo di formazione, una formazione che va nei due versi: a me, al professore, torna la voglia di fare il mestiere dell’insegnante, perché mi appassiono alle potenzialità del ragazzo, e il giovane campione, grazie a me, capisce che può fare scelte diverse. L’uno forma l’altro.
Ha interpretato moltissimi film, evitando cinepattoni e soggetti astrusi. Come sceglie i copioni?
Ho sempre cercato storie che mi piacevano, ponendomi non solo come attore ma soprattutto come spettatore. Film che avrei voluto andare a vedere al cinema se non li avessi interpretati. Forse sono stato bravo a selezionarli oppure è stata fortuna, ma ho interpretato tanti film che sono entrati nel cuore degli spettatori. Diciamo che non faccio dei calcoli alimentari né scelgo film per posizionamento, per questioni di immagine a prescindere dal contenuto.
Quando le piace un copione, sceglie da solo o si confronta con l’agente?
Moira Mazzantini (sorella della scrittrice Margaret, n.d.r.), la mia agente, è bravissima e lavoriamo insieme da cinque anni. Prima di lei lavoravo con la sua socia Graziella Bonacchi, che ora non c’è più. Tendenzialmente, quando una storia mi piace, piace anche a lei. Comunque, se leggo qualcosa che mi interessa, lei è la prima persona che chiamo, prima ancora del regista del film.
C’è anche un’altra donna, accanto lei, professionalmente parlando. La sua coach di recitazione. Come funziona il vostro lavoro?
La preparazione per un attore è fondamentale. Io e Anna Redi lavoriamo insieme dal 2011. Abbiamo cominciato con La vita facilee da allora lei, che è stata danzatrice e attrice e si è specializzata nell’insegnamento della recitazione, partecipa a tutti i miei progetti. Mi piace molto il lavoro che facciamo insieme: analizziamo il testo, facciamo il lavoro fisico, proviamo cominciando dall’improvvisazione fino a quando una scena arriviamo a capirla interamente. C’è una scena di Il campioneche secondo me è venuta particolarmente bene, anche perché ci abbiamo lavorato tanto: è quando parlo con il mio allievo di una mia cosa intima, che riguarda mio figlio. Il lavoro di Anna non entra mai in quello del regista, lo precede. Poi, un attore, quando è sul set, dopo essersi tanto preparato, secondo me deve lasciarsi andare.
Le è mai capitato il vuoto di memoria a teatro, dove non si ci si può fermare e girare di nuovo la scena?
Una volta mi è successo proprio a Bologna davanti a tutte le persone che conoscevo. E una volta con lo spettacolo sull’Orlando Furioso, a Veleia, tra gli scavi archeologici. Avevo ripassato bene il testo, ma a un certo punto, sul palcoscenico, ho avuto un buco della memoria, e mi sono sentito solo come mai nella mia vita. Ho farfugliato qualcosa che però non era in rima, finché non ho ritrovato la memoria. Dopo, quando il testo torna, ci si sente pieni di adrenalina. C’erano miei amici tra gli spettatori, e ho chiesto se si fossero accorti dell’impasse. Niente. Come il dramma di un moscerino: non se ne accorge nessuno. L’attore è un cavallo che deve saltare l’ostacolo. Se non lo fa, non va bene per questo mestiere.
Da poco sono terminate le riprese delle otto puntate di 1994, terza parte della trilogia sulla storia della Seconda Repubblica di cui Sky ha già mandato in onda 1992e 1993. Dell’intera serie non solo è protagonista ma anche produttore.
Il vero produttore è Lorenzo Mieli,uno dei migliori a livello europeo, lo stesso di L’amica genialee The Young Pope. Per la trilogia, che nasce dalla mia idea di raccontare la storia recente italiana mescolando personaggi reali e personaggi fittizi, vicende vere e e verosimili, si è messa all’opera una squadra di autori bravissimi. 1994, secondo me, sarà la più bella stagione della trilogia. Ora è al montaggio. Tutto il progetto è stato venduto all’estero, in diversi Paesi, nonostante tratti di politica locale. Abbiamo una stampa internazionale entusiasmante. Sulla trilogia hanno lavorato due studi legali, uno di Sky e uno della produzione, perché in Italia la serialità non aveva mai toccato la politica: noi siamo stati i primi.
Da quando ha iniziato, in 28 anni di carriera, ha fatto 45 film, 10 serie e miniserie e film TV, 12 tour teatrali, il lavoro di doppiatore, le pubblicità, i cortometraggi, la voce narrante nel docufilm su Tintoretto che sarà trasmesso su Sky, senza contare le giornate dedicate alla lettura dei copioni, a studiare la parte, alla lavorazione dei film e alla promozione. Ma come fa?
Davvero così tanti film? Detto così, sembra abbastanza stupefacente. Ammetto che ho un ritmo di lavoro elevato. Eppure sono stato in Francia 9 anni, girando solo 4 film in Italia. Per fortuna ho fatto dei film francesi. Gli ultimi anni in cui ho vissuto a Parigi mi è venuta paura che quello che avevo vissuto non tornasse mai più. Magari dall’esterno non si percepisce, ma il mio è un mestiere dove non si è mai al riparo. Io mi diverto molto col mio lavoro e non vorrei perderlo quel divertimento. È stato proprio in quei momenti di paura che ho iniziato a rilanciare e ho provato a diventare produttore di progetti televisivi.
Gli attori appassionano il pubblico anche per quanto riguarda le loro vite private. Ricapitoliamo la sua: un fidanzamento con Giovanna Mezzogiorno, poi una lunga storia d’amore con Laetitia Casta, da cui ha avuto due figli, Orlando e Athena. Infine, un nuovo amore, Bianca Vitali, che ha sposato e da cui ha avuto un terzo figlio, Lorenzo, che ora ha due anni. Ci sono anche un cane e un gatto. È complicata la gestione affettiva di così tanti soggetti, abitanti a centinaia di chilometri di distanza?
Se non lavoro, una settimana su due vado a Parigi a trovare i miei due figli più grandi. Altrimenti un weekend su due. Con un po’ di fortuna siamo riusciti a creare una famiglia allargata armoniosa. C’è un bellissimo rapporto tra mia moglie e i miei figli grandi, cosa non scontata. La logistica comunque è parte integrante della mia vita. Organizzare gli spostamenti tra Milano, Parigi e i set è un lavoro di precisione.
E sua moglie? Ci racconta qualcosa di lei?
Bianca lavora in redazione a Mediaset e non fa l’attrice. Fa un lavoro che le piace molto, mentre non ama stare davanti all’obiettivo. Non riesco mai a fare una foto con lei!
Eppure ha iniziato come modella e attrice.
L’ha fatto per mantenersi mentre studiava e magari per andare un po’ in giro. È stata a New York, in Colorado, e tra l’altro ci siamo conosciuti sul set di 1992. Ma poi si è laureata in lettere moderne col massimo dei voti, e ha cambiato vita. Dopo 1992le hanno proposto altri film, ma lei non ci ha pensato minimamente.
Fino ai sedici anni ha vissuto a Bologna, poi la sua famiglia si è spostata a Budrio, a venti chilometri dalla città. Ne ha sofferto?
I miei volevano vivere in campagna. Allora c’era tanta nebbia, oggi invece quando vado a trovarli ci sono delle stellate incredibili. Io ci stavo benissimo a Budrio, andavo e venivo da Bologna col motorino: un viaggione, col freddo e visibilità zero. A volte non vedevo a un metro. Amo la natura e mi piacerebbe vivere in campagna, anche se adesso abito a Milano, città dove sto benissimo.
Da che tipo di famiglia viene? I suoi genitori erano contrari che lei facesse l’attore?
Mio padre è tipografo e mia madre era impiegata in un’assicurazione. Ho un fratello minore che lavora nel turismo. Subito dopo lo scientifico, che ho frequentato con difficoltà (ero più adatto al linguistico), ho risposto a un annuncio di Pupi Avati sul Resto del Carlino e ho avuto una parte nel suo film Fratelli e sorelle. Volevo fare l’attore e mi sono iscritto alla Scuola di Teatro, sempre continuando a recitare in altre produzioni. I miei mi hanno appoggiato, consigliandomi però di frequentare l’università, per prudenza, nel caso non fossi riuscito a proseguire. Mi sono iscritto a Economia e Commercio, insensatamente: non funzionava e avrei voluto passare al DAMS, ma poi ho fatto un film dietro l’altro e ho smesso di pensarci.
A proposito del mestiere di attore, come è cambiato da quando lei ha iniziato, nel 1991, a oggi?
Una volta sembrava una cosa irraggiungibile, difficile. Adesso magari fai delle foto, partecipi a qualche cosa in tv, fai un video interessante che ha successo su YouTube, e ti chiedono di fare un film. L’immagine diventa come un marchio da spalmare su vari prodotti: il video, il film, il libro.
Quali consigli darebbe a un giovane attore
Se un ragazzo sente “la chiamata”, vale la pena di provare. Anzitutto consiglio di studiare recitazione, in una delle scuole riconosciute dal ministero. Secondo me bisogna restare in Italia, non andare all’estero, perché è molto difficile entrare negli stilemi di un’altra cultura. Si rimane degli stranieri. Però è importante essere pronti per un’eventuale occasione internazionale, studiando le lingue e viaggiando molto.