Camilla Baresani

Sommario

VALERIA BRUNI TEDESCHI – La casa, l’intimità, la famiglia

- Grazia - Interviste

Per molte di noi Valeria Bruni Tedeschi è non solo la figura che ammiriamo sullo schermo come attrice, non solo la talentuosa sceneggiatrice e regista di film autobiografici, ma è anche la donna che avremmo voluto essere. Perché è bella, chic, svagata e poetica però anche concreta, in grado di realizzare, realizzarsi, creare una famiglia come voleva lei, mentalmente autonoma ma anche incasinata, sensibile, umbratile, vibrante. In questi giorni viene presentato alla Festa di Roma (e presto sarà nelle sale) Te l’avevo detto, il nuovo film di Ginevra Elkann che la vede tra i protagonisti, ancora una volta con accanto la madre Marisa Borini Bruni Tedeschi, pianista e attrice. Nel suo bellissimo libro Care figlie vi scrivo, Marisa ha raccontato alle figlie Valeria e Carla e a molti di noi, con piglio veloce e con una certa grazia stupefatta, episodi, incontri e tragedie della sua vita. Se aggiungiamo il papà di Valeria, Alberto, compositore e collezionista d’arte, e la sorella Carla, che dopo una stratosferica carriera da modella è ora cantautrice di successo, possiamo immaginare (e sognare) la straordinaria atmosfera creativa in cui Valeria è cresciuta e in cui sta crescendo i propri figli, Oumy e Noè. 

Valeria, attrice e regista sono lavori che si realizzano stando in mezzo a un ampio gruppo di persone. Lavori estroversi, che implicano la capacità di creare dinamiche positive tra i vari talenti delle persone che partecipano alla realizzazione di un film. C’è una parte più intima e solitaria nel suo lavoro? 

Lavoro anche da sola perché è in solitudine che bisogna trovare le scene, i dialoghi, le connessioni di un nuovo film. Ma poi, per costruire la sceneggiatura e precisare il senso del film ho bisogno di riflettere con Noémie Lvovsky e Agnès de Sacy, le mie cosceneggiatrici, e anche con altre persone. Perciò, alterno solitudine e confronto.

Questi momenti di scrittura solitaria dove avvengono? 

Magari anche a casa, a letto, come in questo periodo, ma poi arriva il momento in cui bisogna uscire, soprattutto quando devo andare avanti in modo… muscoloso. Allora, come forma di costrizione, mi obbligo a lavorare in un bar, in un posto dove basta che non ci sia musica. Però ho anche periodi in cui lavoro in cucina. Quello che voglio dire è che non ho uno studio, non mi piace lavorare a una scrivania ma in posti un po’ strani, che hanno anche funzioni diverse. A volte viaggio apposta in treno o in aereo. Negli aerei meglio ancora perché non c’è il telefonino, in quelle due ore di volo ottengo la massima concentrazione. 

Quindi il telefono distrugge la creatività.

Sì, è un vero problema. Impedisce la concentrazione. Il mio primo film, È più facile per un cammello, l’ho scritto a mano, e in un secondo momento l’ho ricopiato con la macchina da scrivere: adesso sembra una pratica quasi medievale. Delle volte mi obbligo a riprendere un quaderno per scrivere a mano.

Sua madre ha raccontato la passione per le case: le sceglieva, le comprava, allestiva. Anche lei ha questa passione immobiliare?

No, anzi non riesco neppure a comprare, affitto. Quando sto bene in un posto mi sembra di doverci restare tutta la vita. Mi dà angoscia la ricerca, il trasloco. Ho bisogno di essere in una casa in cui mi sento bene, protetta, dove tutte le persone della famiglia hanno i loro spazi. Nel mio appartamento c’è una cucina molto grande, e quello è il cuore della casa.

Lei abita a Parigi?

Sì, vicino ai Giardini del Lussemburgo. Ci vado a correre, mio figlio ci va a giocare a ping pong, ci sono anche delle bellissime tavole per giocatori di scacchi. Mi sembra di avere una casa col giardino, abito proprio di fronte e lo sento come se fosse anche un po’ casa mia: pieno di persone, allegro. Mia figlia, che è adolescente, vi va per incontrarsi con gli amici. I ragazzi ci costruiscono i loro ricordi. Ci sono persone della mia età che mi dicono: “Questo quartiere racchiude tutta la mia giovinezza”. Anche perché ci sono molti licei e università.

Dentro casa conserviamo gran parte del nostro mondo interiore.

Infatti ho sempre avuto bisogno di appartamenti che non siano esposti, dove non arriva il rumore. E che non siano a piani alti: alla vista spettacolare preferisco il senso di protezione che dà un piano intermedio.

In quale stile è arredata la sua casa?

C’è un miscuglio di mobili di famiglia e mobili contemporanei, belli e molto semplici, che ho comprato io.

SI diverte ad arredarla?

No, l’ho sistemata una volta e poi aggiungo piccole cose, ne tolgo altre. Quello che mi piace molto è trovare una giornata in cui butto il superfluo. Mi dà forza fare delle scelte di vestiti, di oggetti, di giochi, di libri, e dare ad altri. Alleggerire la casa come e fosse una mongolfiera mi permette anche di sentirmi sgombra, pronta a iniziare un lavoro. Proprio come adesso, che voglio lavorare seriamente a una nuova sceneggiatura. Ho l’impressione che alleggerire la casa mi aiuterà ad avere la testa più leggera. I traslochi, che non amo, sono però grandi occasioni di pulizia. 

Per le vacanze affitta delle case?

Preferisco andare in albergo, oppure vado nella nostra casa di famiglia nel sud della Francia. Per il momento non ho comprato una mia casa di villeggiatura, però mi piacerebbe molto trovare un luogo dove posare le valige e andare con i figli. Come diceva la scrittrice Janet Frame, vorrei un mio posticino personale, “mon address”, per la terza parte della vita, sempre che si possa dividere la vita in parti. Per il momento non l’ho trovato e forse resterà un sogno. Ma anche i sogni sono dei posti, sognare una casa è anche un po’ come averla. 

Sono dunque meglio i sogni della realtà, che quando si concretizza si rivela prosaica?

Anche la realtà può essere molto bella. Per esempio, io coltivavo il sogno di avere dei bambini e si è trasformato in realtà, una realtà più forte, più potente, più folle e più allegra, più infinita del sogno stesso.

Se dovesse vivere in Italia quale sarebbe il luogo prescelto, il più suo, quello in cui si sentirebbe meglio?

Forse Roma, dove mi piace venire per lavorare, ed è la città che conosco meglio e dove ho più amici. Torino la conosco poco, ci ho vissuto i miei primi otto anni e poi ci siamo trasferiti a Parigi.

A quale progetto sta lavorando?

È l’adattamento di un testo della scrittrice premio Nobel Alice Munro. Sono in piena gestazione, quindi preferisco non dire ancora da quale racconto sia tratto. Ma è la mia seconda esperienza di trasposizione. Nel 2015 ho girato un film adattato dal dramma teatrale Tre sorelle di Anton Čechov.

Quando scrive le capita di entrare facilmente nell’intimità di un uomo? Riesce a identificarsi come nei personaggi femminili?

In realtà mi è abbastanza difficile scrivere personaggi maschili. Inizialmente mi vengono delle caricature, come fossero piccole marionette disincarnate, e devo fare un considerevole sforzo per identificarmi. Anche nel mio ultimo film, Forever Young – Les Amandiers, il personaggio del regista Patrice Chéreau inizialmente era semplificato. Poi però, come in Pirandello, mi sembra che i personaggi escano dalla sceneggiatura per dirmi: “Scusa, non mi piace come mi ha scritto, non ho dignità, non ho necessità, non sono abbastanza umano, non sono messo a fuoco”. E allora da personaggi scialbi, per rispetto loro e per rispetto del film, mi sforzo e aggiungo umanità. 

E riguardo alle letture, legge indifferentemente autori maschi e femmine?

Mi piace molto la letteratura femminile. Natalia Ginzburg, Alice Munro, Elsa Morante. Ma amo anche Philip Roth, non sono rigida. Però constato che ci sono molte scrittrici nel cui mondo entro bene, e con la Ginzburg è come se entrassi in famiglia. La sua modestia, la sua umile ricerca della parola mi tocca molto. Le piccole virtùè il suo libro che preferisco.

Lei ha paura della noia?

Penso che sia molto importante, e che non la coltivo abbastanza. È difficile incontrarla, ma capita se non faccio sport, quando i bambini sono a scuola, e magari non sto lavorando, non vado al cinema, non leggo. Oppure nei viaggi in cui non si usa il telefonino, che ha ucciso la noia, e ha quindi ucciso qualcosa che è nel cuore e nell’immaginario dell’essere umano. 

L’onnipresenza del telefono è preoccupante?

Sì. Ci sono problemi che incombono sul nostro futuro: quello dell’ecologia, della sostenibilità ambientale, ma poi anche quello dell’ecologia dello spirito, una sorta di terribile inquinamento spirituale dovuto all’onnipresenza degli schermi. Lo vedo con i bambini: è un problema per il loro immaginario. Per esempio, mio figlio non sopporta la noia, urla quando ha tre minuti di noia. 

Solo che poi risulta molto difficile impedire che stiano sempre attaccati a uno schermo, perché vedono noi perennemente al telefono o al computer. È come proibire di fumare quando si fuma. 

Lei usa i social?

No, nessuno. Per me non esiste quel pianeta.

Ho letto che lei è di origine ebraica. 

Mio nonno paterno, che poi si è convertito, era ebreo, come si capisce dal cognome Tedeschi, molto diffuso tra gli ebrei italiani. Mio padre aveva aggiunto il cognome di sua mamma, Bruni. È anche per rispetto al nonno che non ho voluto togliere il secondo cognome, come ha fatto mia sorella. Mi sembrava molto importante.

È credente?

Sono stata allevata nei rituali cattolici e dunque li seguo come potrei seguire quelli di altre religioni, se fossi stata allevata in modo diverso. Mi ricordano la mia infanzia, gli odori, la messa, la chiesa. Quello che è sicuro è che ho bisogno di rituali spirituali e perciò li seguo a modo mio. Per esempio, seguo la meditazione buddista secondo gli insegnamenti di un grande maestro, Thch Nhat Hanh, ma amo anche andare a messa la domenica sera in chiese piccole, intime. Sento sempre il bisogno di avvicinarmi a una dimensione spirituale. Amo soprattutto il gospel e le messe africane di rito protestante: esprimono col canto gioia e gratitudine, un sentimento quasi dionisiaco. Spiritualità è chiedere ma anche ringraziare. Ringraziare è un modo di prendere coscienza della propria fortuna, pur nel dolore, è una chiave della fede.

Lei ha due figli che ha potuto adottare in Francia: Oumy, con il suo ex compagno Louis Garrel, e Noè, da sola. In Italia non le sarebbe stato possibile perché è concesso solo a coppie eterosessuali sposate. 

Ho diverse amiche che hanno adottato bambini da sole e non vedo nessuna differenza con tante mamme che sono sole, benché non abbiano adottato. Trovo molto strano, antiquato, retrogrado che una donna non sposata o che è single non possa accedere alla maternità.

Cosa pensa del cosiddetto utero in affitto?

Io sono per dare possibilità a chiunque di realizzare il desiderio di crescere figli. Ci sono persone che legittimamente non si sentono di adottare. E, quanto alle madri surrogate, penso ogni donna deve poter scegliere cosa fare del proprio corpo.