Una scrittura limpida, sempre pronta a frugare nelle nevrosi dei comportamenti della borghesia urbana – in particolare quella di sinistra – alternando toni caustici ad altri affettuosamente ironici: Yasmina Reza, drammaturga, scrittrice, sceneggiatrice, nei romanzi e nelle pièce fa sempre accadere qualche incidente da nulla, anche solo una coincidenza o una gaffe, che fa deflagrare un conflitto, finendo per smascherare le ipocrisie della brava e buona gente. Soprattutto, le situazioni create da Reza ridicolizzano il perbenismo (che oggi è quello del politicamente corretto), quel sentirsi dalla parte giusta che già Gogol’ metteva alla berlina e che Nabokov definì con dispregio pošlost, trovandolo il colmo della volgarità: la meschinità autosoddisfatta.
Siamo tutti vulnerabili, questo ci dice Reza, dietro le certezze e i comportamenti di chi si sente arrivato si nascondono abissi di contraddizioni. Se noi borghesi fossimo dei tappeti, la scrittrice ci mostrerebbe non l’ordito, i colori, il disegno, ma la polvere, gli acari, le tarme. Il tono non è mai sferzante, come quello di Thomas Berhnard, altro autore europeo specializzato nello smontare i luoghi comuni dei borghesi autocompiaciuti (come nel fenomenale A colpi d’ascia). Il tono dell’autrice francese è invece ironico, ma anche affettuoso come può esserlo uno scappellotto assestato al bimbo sorpreso a tormentare le lucertole, ed è comunque il tono della presa di coscienza: siamo proprio così, dietro la maschera c’è sempre qualcos’altro. Nell’epigrafe della sua tragicommedia Babilonia, Reza ha posto una frase del fotografo americano Garry Winogrand: “Il mondo non è affatto ordinato. È un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto”. Proprio come accade nella sua fortunata pièce Il dio del massacro, tradotta in 35 lingue, andata in scena in buona parte del mondo con interpretazioni di celebri attori, e poi ripresa da Roman Polansky che ne ha tratto il film Carnage. Sotto i colpi di una scrittura straordinariamente corrosiva, cade l’ipocrisia sociale di due coppie di bobos, ricchi borghesi bohémien, ipocritamente illusi di essere portatori sani delle idee progressiste à la page. Non c’è moda o atteggiamento che sfugga alla sua penna. In un’altra fortunata pièce, Arte, che le ha fruttato una valanga di diritti d’autore ed è stata tradotta in 40 lingue, Reza sfotte invece il mondo dell’arte contemporanea, con le sue scriteriate quotazioni, con le sue illusioni. Di fatto, il materiale umano messo in scena fa venire in mente il brillantissimo compendio di nomi e idee filosofiche politicamente corrette selezionato nel saggio di altri due francesi, Sven Ortoli e Michel Eltchaninoff: Come sopravvivere alle cene mondane e non passare inosservati in società.
Prendiamo uno dei piccoli libri fenomenali di Reza, la raccolta Felici i felici (titolo tratto da Borges). Ci sono ventuno storie, brevi racconti che inquadrano ognuno un disagio di coppia, di solitudine, di rapporti con i genitori. Reza è una ventriloqua, sa fare le voci di ogni personaggio: vecchi col cancro, attrici in disarmo, figli adulti che si vergognano dei genitori strambi, o viceversa, genitori che si vergognano dei figli ammattiti, consulenti finanziari stremati da conflitti coniugali che si accendono per un nonnulla, seguiti da aggressivi silenzi coniugali. In tutto questo, è fantastica la selezione di dettagli che rendono vere, condivise da ognuno di noi le sue storie di critica sociale dell’ipocrisia e di smantellamento del concetto di rispettabilità. Reza è la più grande tessitrice di litigi e battibecchi, di zuffe a letto su chi deve spegnere la luce, di contese sulla scelta di un morbier al posto del gruyère al banco formaggi del supermercato. Una vecchia madre dispettosa nella sala d’attesa di un reparto oncologico parla al figlio, che l’accompagna e l’invita ad abbassare il tono, dopo che la donna ha fatto a gran voce un conto delle parrucche da chemio in testa ai presenti, e delle relative probabilità di vita che rimangono a ciascuno di loro. La vecchia cambia argomento e ora tocca a un’amica: “Vincent, tesoro, non pensi che dovremmo portarle dei cioccolatini, la prossima volta? Povera Roseline. Lo sai che non è più la stessa da quando la figlia è scomparsa nello tsunami, è uno dei venticinque corpi che non sono mai stati ritrovati, crede che sia ancora viva, ogni tanto mi dà sui nervi, mi viene la tentazione di dirle, sì, come no, allevata dagli scimpanzé che le hanno tolto la memoria”. E subito passa a illustrare a uno sconosciuto vecchio tremolante seduto accanto a lei i dissidi col marito defunto che era pateticamente ossessionato da Israele. Yasmina Reza, figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese, entrambi di origine ebraica, è la quintessenza della parigina. Snella, sempre vestita in modo molto femminile, belle gambe, non teme di ironizzare nemmeno su temi delicatissimi, come quello della visita ai campi di concentramento. Nel suo ultimo romanzo, Serge, una scombinata comitiva di ebrei francesi, fratelli e nipoti, va in gita ad Auschwitz. Il viaggio è progettato come dovere della memoria e vissuto come certificato di buona condotta, tra agghiaccianti reperti fotografici, vagoni piombati, cumuli di valige svuotate, matasse di capelli e centinaia di occhiali custoditi nelle teche. Tuttavia, i protagonisti sono distolti dal concentrarsi sulla tragedia epocale, presi dai detriti delle loro vite correnti, dalla meschinità delle loro preoccupazioni, dall’insofferenza che provano gli uni verso gli altri. E così litigano grottescamente nel cuore del tragico santuario dell’Olocausto.
Nello scorso ottobre, abbiamo incontrato Yasmina Reza a Capri, dove le è stata assegnata l’edizione 2021 del prestigioso premio Malaparte, dedicato ad autori del panorama internazionale. Accompagnata dal docile ex marito, che sta girando un documentario su di lei, ha trascinato editor e traduttori della casa editrice Adelphi, che la pubblica in Italia, in micidiali scarpinate tra Villa Jovis, via Krupp e Villa San Michele. Reza non ama che la sua scrittura sia definita cinica, che le si dica che fa satira sui personaggi. “Non posseggo opinioni acute su nessun argomento. Il mio lavoro di scrittrice è di esplorare una realtà che non comprendo. Il problema è che in Francia l’umorismo è percepito come materia leggera da vaudeville, da teatro boulevardier. Però i miei testi piacciono alla critica, e allora hanno dovuto dire che il mio è sarcasmo, perché il sarcasmo è intellettualmente legittimato. Invece, il mio è uno sguardo empatico, quando scrivo rido di me stessa. Mi piace stare dentro le cose, non al di sopra. Nei rapporti sociali si indossa una maschera di moralità e buona educazione, ma io metto in scena il momento in cui saltano i nervi”. E quando le chiedono della condizione delle donne, risponde: “Ormai gli scrittori sono costretti a esprimersi tutti i giorni su tutto, dalla politica al metoo, ma non è un esercizio di libertà, è il contrario: una volta che hai detto pubblicamente quello che pensi, poi devi scrivere la stessa roba nei tuoi libri, e ti pregiudichi un sacco di possibilità. Non che io non sia d’accordo col metoo, per carità, non si potrebbe non esserlo, però ho deciso da tempo: non ho i social e non parlo di attualità. Perché poi vieni giudicato solo per le tue posizioni ideologiche e politiche. E per vendere qualche copia in più finisce che sei portato a schierarti”. E blocca l’ennesima domanda sull’attualità con un elegante: “Je suis pas sociologue”.
Uscirà da Adelphi ai primi di marzo l’ultimo romanzo di Yasmina Reza, Serge. In Francia è pubblicato da Flammarion. “In un epoca dove sempre più si restringe il campo delle cose di cui si può ridere, Reza non rispetta niente: né la famiglia, né il matrimonio, né la donna, né il cancro – e nemmeno, sacrilegio!, i viaggi “turistici” ad Auschwitz” – ha scritto Le Point. È la storia dei fratelli Popper, un insulso gregario, un “re delle imprese nebulose”, una sorella moralista, oltre a una nipote in sovrappeso aspirante estetista con smanie identitarie che, per elaborare il lutto della morte della nonna, vanno in pellegrinaggio ad Auschwitz.