Guerra, distruzione, macerie fumanti sono quotidianamente vicine a noi, riverberando le tragiche immagini della fine della Seconda Guerra Mondiale. In Storia naturale della distruzione (Adelphi) Winfried Sebald parla delle conseguenze dei bombardamenti della Royal Air Force su 161 città tedesche, nel ‘42. 600mila morti, 7 milioni di sfollati, logica della “distruzione per la distruzione”. Sebald si dedica ai danni morali oltreché materiali, all’elusione della memoria collettiva, corredando il testo con immagini. Anche quelle che mostrano una sorta di rigenerazione urbana: “A Colonia, infatti, verso la fine della guerra, la distesa di macerie ha già conosciuto una parziale metamorfosi proprio grazie al verde che vi ha attecchito rigoglioso e, simili a tranquilli sentieri di campagna incassati tra due sponde, le strade attraversano il nuovo paesaggio”. In Germania, a differenza che in Italia, le apocalissi urbane furono incrementate dalla gran quantità di edifici in legno. Il cemento avrebbe limitato il propagarsi delle fiamme. Ma Anselm Jappe, docente di Estetica a Frosinone, dopo una monografia su Guy Debord e alcuni saggi contro il denaro, contro il valore assegnato alle merci, contro il pensiero unico, insomma simpatizzante della decrescita felice di cui ha scritto con Serge Latouche, si è ora dedicato al cemento, per rendercelo inviso. La tragedia del ponte Morandi diventa il motore di una riflessione sul versante urbanistico e architettonico del capitalismo. Cemento, arma di costruzione di massa (Elèuthera) è un atto d’accusa contro il materiale che ha uniformato l’arte di edificare distruggendo la varietà delle tecniche locali e l’artigianato, ha spalmato il proprio “monotono regno” fin nei luoghi più remoti del pianeta, rappresenta l’aspetto concreto del capitalismo e delle sue disastrose conseguenze ecologiche, soffre di obsolescenza programmata. In pratica, il cemento è di destra. Di una destra insidiosa e globalista. Ci eravamo appena convinti che l’efferata estetica cementizia del brutalismo avesse un suo fascino, quando il saggio di Jappe, che invoca un’azione rivoluzionaria di smantellamento degli edifici “creati dalla tirannia della merce”, ci ha fatto ricredere. Sbagliamo tutto quando attribuiamo alle case di cemento uno scopo anche simbolico, quello di mantenere il patrimonio famigliare fondandolo su qualcosa di solido; sbagliamo perché il cemento è efficiente per soli 50 anni, poi si fessura, il metallo che lo sostiene si corrode e nel frattempo abbiamo consumato sabbia, CO2, reso sterile il suolo provocando catastrofi e smottamenti. Secondo Jappe, il colpevole è anzitutto Le Corbusier, che ha lasciato dietro di sé rovine come la ormai sfasciata città indiana di Chandigarth, e ha una responsabilità sociale per aver progettato complessi urbanistici fascistoidi perché concepiti con edifici dalla destinazione precisa e preimpostata, cumuli di cubi concentrazionari. Secondo il filosofo francese Roger-Pol Droit è dunque imputabile di “fascismo in cemento armato”, perché la sua urbanistica evoca eugenetica e segregazione sociale. Anche Burri ha sbagliato tutto, sostiene Jappe, perché il Cretto di Gibellina invecchia più rapidamente delle rovine che ha coperto. Dal 1950 al 2019 la produzione di cemento è passata da meno di 200 milioni di tonnellate annue a 4,4 miliardi, con un tasso di moltiplicazione 3 volte più veloce di quello dell’acciaio. Angoscia. Siamo nel “capitalocene”, epoca in cui “il cemento si frappone come un carapace tra gli abitanti e il suolo”. E il condono edilizio, continuamente realizzato e invocato nel nostro Paese, equivale al traffico delle indulgenze con cui i peccatori si ripulivano dai peccati. Non resta che aspettare il Lutero dell’edilizia.