Tratto dalla raccolta di racconti Legami familiari, La donna più piccola del mondo dispiega in poche pagine i temi più cari a Clarice Lispector. C’è l’uomo civilizzato che si confronta con l’essenza primitiva della vita, rivelando come i nostri sofisticati desideri abbiano un che di stonato e, spesso, di ridicolo. Ci sono mamme atrocemente disincantate e bambini dall’ingenuità sottilmente carognesca. C’è lo smascheramento degli istinti caritatevoli, perché esiste sempre un’altra faccia della medaglia e la grande scrittrice brasiliana è una maestra del capovolgimento. E c’è il suo consueto tono di soave perfidia quando spolpa quel sentimento evanescente che siamo soliti chiamare amore.
Al centro delle opere della Lispector, raccolte in Le passioni e i legami (Feltrinelli, pag 800, euro 40), ci sono soprattutto donne. Signore borghesi che osservano la propria femminilità nel riflesso delle altre: di arpie attaccate solo al cibo (leggete il sadico raccontoFesta di compleanno), di cameriere che riportano alla primordialità dell’esistenza (come nel perturbante romanzo La passione secondo G.H.), di vecchie preda di uno scandaloso desiderio di godere (Rumore di passi nella raccolta La passione del corpo)… La feroce acribia con cui Clarice Lispector disseziona le sue donne non ha eguali, ed è tanto più straordinaria perché non ha potuto appigliarsi a nessuna tradizione preesistente. Leggendo i suoi racconti e romanzi, vi renderete conto di quale assoluta novità abbia portato la sua penna sul finire degli anni ’40.
Nata in uno shtetl dell’Ucraina nel 1920, la Lispector approdò con i genitori e le sorelle in Brasile, a Recife, quando aveva poco più di un anno. Non ebbe dunque esperienza diretta delle violenze che avevano costretto i genitori a emigrare, ma ne vide gli effetti sulla madre, che morì per la sifilide contratta dai soldati che l’avevano violentata durante un pogrom. A quel punto Clarice aveva nove anni, e studiava in una scuola ebraica. La famiglia rimase a Recife fin quando, nel ’35, il padre decise di trasferirsi a Rio de Janeiro, alla ricerca di un lavoro migliore e sperando di trovarvi un marito ebreo per le figlie. Le cose non andarono così. Il padre morì mentre lei studiava diritto all’università e già scriveva i primi racconti. Tre anni più tardi, nel ’43, pubblicò il primo romanzo, Vicino al cuore selvaggio, che ebbe immediato successo. Nel frattempo si era sposata con un giovane diplomatico. Il matrimonio durò poco più di quindici anni, durante i quali la Lispector si trasferì col marito in Amazzonia, poi nel ’45 a Napoli, poi a Berna, poi nel ’51 a Londra, infine a Washington. Fu lì che ebbe il coraggio di lasciare il marito, e con i due figli tornò a Rio, dove rimase sino alla morte, nel ’77. In tutti questi viaggi evitò sempre accuratamente di mettere piede nell’Europa dell’est. La cosa più lontana dall’opera narrativa della Lispector sono proprio gli ebrei, i pogrom, l’Olocausto. Non ne parla mai, ed Emanuele Trevi, nella bella prefazione di Le passioni e i legami, tenta un’interessante spiegazione di questa vistosa censura.
A più di 30 anni dalla morte, la Lispector continua a essere considerata una colonna portante della narrativa latino-americana, mentre da noi è incasellata nella categoria degli “scrittori per scrittori”. Può darsi che ci sia stato un pregiudizio sul suo essere un’osservatrice fredda, priva di quelle note di patetismo che ci si aspetta (purtroppo) dalle scrittrici.
È tempo che i lettori italiani rivalutino il suo mondo narrativo popolato di mamme, nonne, bambini immorali, che coltivano pensieri e desideri straordinariamente diversi da come la somma dei perbenismi li avrebbe voluti.