Nel 2016 ho abitato per qualche mese a San Francisco con il mio compagno, Paolo Giaccio. Entrambi avevamo il mito del West Coast (inteso come movimento musicale). A parte questo, Paolo voleva produrre un documentario sugli startupper e hi-techers italiani, io volevo raccontare gli scrittori di San Francisco, i vivi e i morti, e scrivere reportage sulle avanguardie cuciniere californiane grazie alle quali l’America era diventata un luogo meno immangiabile, almeno nella percezione di noi italiani.
Avevamo preso in affitto un bilocale per poter ospitare amici in visita. Poco dopo, ci ha raggiunto Michele Masneri. Per lui San Francisco era il luogo mitico delle grandi rivoluzioni libertarie, ma una volta arrivato ha scoperto così tante cose che lo appassionavano che ha deciso di trasferirsi: è rimasto un anno scrivendo corrispondenze per “Il Foglio”, e alla fine ha prodotto un libro pieno di dettagli e collegamenti, anche molto divertente, Steve Jobs non abita più qui (Adelphi).
Un grande amico di Paolo, originario di Amatrice, conosciuto in un negozio di dischi di Roma quando erano ragazzi negli anni Settanta, vive a San Francisco dove era andato per incontrare e frequentare i Jefferson Airplane e i Grateful Dead. Oggi è proprietario del Ristorante Milano, frequentato dall’upper class di Pacific Heights, i Parioli di San Francisco. È imbevuto di cultura libertaria, fuma quotidianamente joint da agricoltura bio della Sonoma valley, ma è anche un imprenditore di successo.
A San Francisco ci siamo fatti vari amici, un misto di vecchia guardia “figli dei fiori” e di arrembanti startupper. I fratelli Maico e Franco Campilongo erano arrivati pochi anni prima da Scalea, Calabria, per imparare l’inglese inseguendo il miraggio di Pamela Anderson, la bagnina di Baywatch. All’inizio, per mantenersi, avevano fatto i camerieri in un bar della Silicon Valley, insieme a Kevin Systrom, in seguito cofondatore di Instagram. Dopo molte fatiche, i Campilongo sono diventati proprietari di due locali gastrofighetti e di gran successo tra i milionari del digitale, Terùn e Italico, sulla via principale di Palo Alto.
Questo per dire che la California offre tante parti di sé: ci si va con una suggestione, si finisce per svilupparne altre. Molti restano, con altalenanti e faticosi successi, altri se ne vanno con sollievo perché il furibondo costo della vita li ha massacrati.
In tutto questo andirivieni di persone, di tentativi riusciti e di sogni infranti, non era mai capitato che un libro dedicato ai problemi di uno Stato mitico ma remoto, a 9 ore di differenza di fuso orario da noi, arrivasse in cima alle classifiche di vendita, per giunta nella stagione calda, quella in cui tutti gli editori fanno uscire le cosiddette strenne che si giocheranno le vendite sino al fatidico Natale. A California di Francesco Costa (Mondadori) è riuscito il miracolo editoriale: infrangere la barriera mussolinica nell’anno del centenario della Marcia su Roma, sui cui tanti giornalisti e scrittori hanno scommesso per fare il sacco delle vendite. Dribblando le M di Mussolini e di Marcia su Roma, Costa ha scritto un best seller in cui racconta la California e soprattutto San Francisco (che occupa buona parte del libro), riuscendo a catturare l’attenzione di gran parte dei lettori italiani di saggistica, lettori che finora non erano parsi così massivamente interessati al tema. Ci è riuscito sfruttando la sua popolarità di vicedirettore del Post e podcastista, ma anche perché ha raccontato con piglio felicemente divulgativo e una lingua piana, chiara, che scivola via, tutti gli inghippi della contemporaneità: libertarismo mischiato a interessi privati, buone intenzioni che si trasformano in trappole, ferali immobilismi burocratici nella patria dell’innovazione, siccità e allarme terremoti, barbonismo e politiche assistenziali, illusioni ambientaliste e contraccolpi inquinanti, inghippi del razzismo al contrario che si affaccia nelle politiche antirazziste dell’istruzione pubblica: in pratica Costa ha scritto un interessantissimo e documentato racconto di quei retroscena che hanno portato la quinta economia del mondo, lo Stato modello di ogni innovazione libertaria a essere un luogo che certamente attira ma da cui poco dopo si scappa per l’insostenibilità dello stile di vita. Tant’è vero che il primo capitolo è intitolato La fuga, e sulla fuga dalla California si chiude il libro. Con la sua documentata esposizione di numeri e fatti, Costa ha visto cose che noi, mentre abitavamo a San Francisco, avevamo percepito ma sottovalutato, perché abbacinati dalla bellezza del paesaggio, dalle aggraziate casette di legno su cui si basa il modulo abitativo californiano, dai sorrisi e dalla gentilezza di quella popolazione dedita al lavoro, allo sport sempre e ovunque, al possesso di cani (“I cani sono le persone più rispettate della California”, mi fece notare il direttore del San Francisco Chronicle). Tutto il bene e il male di vivere, come nota Costa, nasce proprio dalle casette. Mentre la popolazione dello Stato dal 1980 è raddoppiata raggiungendo i 40 milioni di abitanti, “la saldatura tra gli interessi dei proprietari immobiliari e il movimento ambientalista, che permetteva di dire non lo facciamo per noi, lo facciamo per il pianeta!” ha fatto sì che costruire nuove case sia diventato quasi impossibile, tantomeno in verticale. Se le case sono poche rispetto agli abitanti finisce che il loro valore immobiliare diventa clamoroso. Gli affitti insostenibili. L’industria tecnologica e digitale della Bay Area e quella del cinema e della televisione di Los Angeles, l’agricoltura intensiva che produce avocado, cavoli e cavoletti, mandorle e vini esportati in tutto il mondo creano ricchezze e attirano lavoratori, ma sempre più persone finiscono a dormire in macchina, in roulotte, in accampamenti. Senza contare che il clima favorevole, le leggi libertarie e la tipica tolleranza californiana attirano anche disperati e disturbati, tossici e reduci sbroccati. In California vive il 12 per cento della popolazione statunitense e un quarto dei senzatetto americani. Almeno 160mila persone abitano in capanne di cartone rivestite da teli di plastica e in igloo coi picchetti piantati nel marciapiede nel centro di San Francisco e nei luoghi più noti di Los Angeles (tipo Venice beach), nei parcheggi intorno a università e aziende dell’hi tech, sotto i ponti delle circonvallazioni. Chi ci finisce perché magari per un mese non riesce a pagare l’affitto (gli sfratti sono immediati), presto si adegua ai consumi di alcol e droghe degli homeless professionali. Usa i marciapiedi come water, precipita in una spirale di impresentabilità estetica e igienica che gli inibisce il lavoro. Francesco Costa parla diffusamente dell’aumento della violenza, come conseguenza della crescita vorticosa dei senzatetto. Questa violenza a San Francisco si avverte relativamente. Anzi, noi italiani che viviamo rinchiusi tra porte blindate e cancelli rimaniamo esterrefatti dalle serrature primordiali, dalle finestre senza grate ai piani bassi, dalla mancanza di recinzioni, dalla svaligiabilità di case che valgono due o tre milioni di dollari. Per divertimento, guardo quotidianamente le quotazioni degli appartamenti in vendita a San Francisco. Quotazioni in perenne ascesa. Quando scopro che una bella casa è in vendita, con il dispiego di tutte le luminose fotografie della facciata, degli interni e del backyard, ma l’allegato grafico del valore immobiliare ha un picco negativo, mi chiedo se non sia perché sul marciapiede antistante si è insediata l’ennesima tendopoli. La terra dei diritti e della lotta alle diseguaglianze è anche quella dove una famiglia di genitori con due figli e 100mila euro di reddito fa una vitaccia sempre in bilico, dove basta ammalarsi e perdere il lavoro per finire baraccati. Chi abita nelle grandi città italiane, dove il numero di senzatetto sta visibilmente aumentando, è particolarmente interessato all’analisi del macroproblema californiano e delle politiche fallimentari con cui si è tentato di risolverlo. Viene da sospettare, scrive Costa, che “il reale obiettivo dei ridondanti e costosi 41 programmi governativi non sia tanto aiutare le persone senzatetto, bensì mantenere tutti i moltissimi posti di lavoro legati alla loro assistenza”. C’è poi una gustosa disamina delle differenze fondamentali tra il nostro sistema scolastico e quello americano. In particolare, l’istruzione pubblica californiana è ossessionata dalla lotta al razzismo. Fosse così anche da noi!, pensiamo. Ma anche qui c’è l’inghippo. La Critical race theory alla base dell’ordinamento scolastico, viene applicata fino al paradosso. Scrive Costa: “I figli delle sempre più numerose coppie miste sono i più spiazzati da questo genere di iniziative – ‘mio figlio è privilegiato perché è mezzo bianco o è una vittima perché è mezzo nero?’. Finisce che la California, per contrastare il razzismo e favorire la minoranza nera, “mette in una condizione particolarmente sofferta e problematica gli studenti di origini asiatiche o gli studenti ebrei, che ottengono ottimi risultati scolastici pur appartenendo a tutti gli effetti a delle minoranze”.
Ambientalismo forsennato, ossessivo calcolo e ricalcolo dei diritti di razze ed etnie, siccità, incendi apocalittici, minaccia della faglia di Sant’Andrea: tutto si riflette in un male di vivere a San Francisco (e nella Bay Area) che, da approdo di pionieri cercatori d’oro e prostitute, si è trasformata prima in capitale dell’hippysmo mondiale e del movimento LGBT, e oggi è la terza città dopo New York e Hong Kong per numero di miliardari residenti. Male di vivere che riguarda anche la sterminata Los Angeles, cresciuta secondo il fenomeno sprawl, ossia “l’espansione rapida, improvvisata e sregolata di un contesto urbano a bassa densità che richiede il ricorso all’automobile e produce ghetti, quartieri-dormitorio, zone quasi completamente prive di servizi di qualità”. In pratica la capitale dei “luoghi oscuri” magistralmente raccontati nei romanzi di James Ellroy.
Ed ecco che oltre mezzo milione di persone ogni anno emigra dalla progressista California verso il trucido Texas, in Arizona, nel Nevada, in luoghi dove spiagge e scogliere e surfate sulle onde te li sogni di notte. È la ricerca di “un posto ancora normale” dato che in California “il 60 per cento delle abitazioni costa più di mezzo milione di dollari. In Texas meno del 10 per cento”. La fuga approda persino nello stato ritenuto più loffio di tutti, l’Idaho. Al punto che i retrivi abitanti scrivono sui muri “Go back to Cali” (California, non la Cali colombiana). L’attuale governatore del Texas in campagna elettorale strepitava “Don’t California my Texas”, alludendo ai disastri creati dalla più radicale versione del partito democratico americano. In pratica, “la strana crisi della California”, “la fine della California come luogo dei sogni e paradiso terrestre” è il soggetto dell’appassionante saggio di Francesco Costa, con un elogio dell’alternanza politica come possibile rimedio ai mali che affliggono il grande Stato costiero. Quando il libro è andato in stampa ci apprestavamo al voto, con il risultato che qui, in Italia, abbiamo ottenuto l’alternanza che Costa auspica per la California. Senza però esser passati dai contraccolpi del più irrefrenabile ambientalismo, libertarismo, antirazzismo.