Camilla Baresani
Autore: Elaine Dundy
Titolo: Il dolce frutto
Editore: Bur
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Sommario

ELAINE DUNDY – Il dolce frutto

- postfazione al romanzo, edizione BUR - Recensioni

“Leggere! Non volevo leggere, era un succedaneo della vita. Il tempo scarseggiava”. Chissà come rideva sotto i baffi la dispettosa Elaine Dundy mentre scriveva questa battuta per la sua protagonista, Sally Jay Gorce. Le cui avventure avrebbero poi appassionato innumerevoli lettori, dato il successo internazionale del libro, divenuto prima un best seller nell’anno della pubblicazione, il 1958, e poi un long seller nei tanti paesi in cui è stato pubblicato e ripubblicato (qui, in Italia, il primo editore è stato Garzanti, nel 1960). Tutti poco amanti della vita, questi lettori, e dediti ai succedanei? Non credo. Perché “Il dolce frutto” sembra pensato per spingerli a uscire di casa e provare a vivere, a essere al centro delle cose, dei movimenti, delle arti e dei traffici anche se non si è belli, non si ha un soldo e ci si sente pesci fuor d’acqua.

A metà romanzo, Larry, il coprotagonista anima-nera, diagnostica che il guaio di Sally Jay sia la mancanza di “pace interiore”. Nella stessa mancanza di pace interiore doveva trovarsi chi, comprandolo e leggendolo, ha creato il successo di questo romanzo che potremmo definire l’antesignano della cosidetta chick lit (letteratura per pollastrelle), genere letterario di gran moda negli anni Novanta. È proprio vero che in letteratura non si inventa mai niente.

Mentre la letteratura rosa, è un genere svenevole, dove donne innamorate si aggrappano alle tende per via di amori infelici, malattie e ostacoli inimmaginabili, drammi e colpi di scena che mirano a vellicare e risvegliare il versante melodrammatico presente ma sopito in ognuno di noi, la chick lit è un genere per donne evolute, post Erica Jong e conquiste del femminismo. Il soggetto tipico di questi romanzi (e del loro equivalente televisivo) racconta l’esistenza di donne che cercano più il divertimento che l’uomo della propria vita, abitano in grandi capitali e ne vivono appieno la vita mondana entrando e uscendo da bar, ristoranti, locali notturni, in un susseguirsi di risvegli con cerchio alla testa e stupori alla “che ci faccio qui/chi è quest’uomo che mi russa accanto”. La grande novità del genere è che le eroine, anziché romantiche e melense, sono autoironiche, spiritose, mutevoli e indipendenti. Più di tanti proclami e discese in piazza, l’affermarsi di questo genere di storie ha segnalato una conquista e un dato di fatto: per la donna occidentale nulla sarà più come prima. Non si torna indietro. E l’inquietudine delle protagoniste di queste storie, in cui tutto quello che la vita offre va assaggiato senza timori e censure, è certamente quella delle loro lettrici (e lettori – gli uomini sono grandi consumatori del genere, perché la femminilizzazione della società li spinge a rispecchiarvisi più che in tanti romanzi d’azione). Prototipi della chick lit anni Novanta sono stati il celebre “Diario di Bridget Jones” di Helen Fielding e il serial “Sex and the city”. Chi ha letto “Il dolce frutto” non può che riconoscervi tutti gli ingredienti del genere, messi in pagina quarant’anni prima. Elementi che troviamo con dosaggi diversi in un altro romanzo pubblicato anch’esso nel ’58: “Il meglio della vita”, di Rona Jaffe. Se quello racconta Parigi, questo racconta New York, e in entrambi la verginità non è un tabù ma una scomoda condizione di cui disfarsi al più presto (proprio come per i maschi).

La grande novità offerta alla fine degli anni ’50 ai lettori dalle avventure parigine di Sally Jay Gorce è stata l’approccio spiritoso, baldanzoso e frizzante a un mito fondativo del romanzo di formazione americano degli anni anni Trenta e Quaranta: l’apprendistato a Parigi, in Europa. Anziché il solito protagonista maschio, compreso di sé e dei propri tormenti politico-filosofico-artistici, siamo alle prese con una scombussolata, maldestra, arguta ragazza americana, che osserva e giudica francesi, europei di vario genere e connazionali. I ricchi, gli spiantati, i truffatori, i fessacchiotti, quelli con le borse di studio e quelli in fuga dallo status famigliare, i maledetti e gli ispirati: tutti passano al vaglio dei giudizi anticonvenzionali della inconsapevolmente sexy Sally Jay, il cui primo problema, giunta dall’America, è stato quello di disfarsi della sua noiosa verginità nel modo più rapido e sdrammatizzante possibile. Come ha scritto Elaine Dundy nell’autobiografia “Life Itself!”, la conoscenza carnale tra due persone avviene “per curiosità e attrazione; per divertimento e libertà”. Proprio quello che succede a Sally Jay, la cui caratteristica principale è quella di non prendersi mai sul serio. Il suo motto potrebbe essere: “Be’, andiamo avanti! Cosa succede adesso?”.

Del resto, la Dundy ha usato per l’esergo – di solito scelto tra i motti di autori classici e ricercati – una citazione che mette subito in guardia il lettore sul tono del romanzo: “Desidero che incontriate la signorina Gorge. È nel business dell’imbalsamazione”. E l’autore è James Thurber, giornalista e disegnatore umorista, collega di Elaine Dundy al New Yorker. Ecco dunque come è stato scelto il cognome di Sally Jay: dalla battuta di un racconto comico.

Nel romanzo c’è una scena che spiega molto dello spirito e della concezione narrativa dell’autrice. Mette in scena quello che, di fatto, è il procedimento di costruzione letteraria usato da molti scrittori, ma ne mostra il versante ridicolo. Siamo dalle parti di Biarritz, dove Sally Jay e la sua balorda comitiva di amici hanno affittato una villa per l’estate. A un certo punto, si materializza in spiaggia un tizio dall’aspetto eccentrico, che attacca bottone con i quattro amici. È arrabbiato per essere stato buttato fuori a calci dalla villa di William Somerset Maugham, a Cap Ferrat. Lui che, a suo dire, è “il pittoresco eccentrico di cui scrivono tutti quei tipi lì”, andava a trovarlo per offrirsi come personaggio da mettere in un romanzo. Il celebre autore, ormai vecchio e creativamente prosciugato (“ha esaurito i personaggi”), ormai non scrive più, eppure se ne è rimasto rinchiuso nella villa e non ha voluto incontrarlo. Ma c’è stato un inglese, tal Tynan (omaggio della Dundy al marito, Kenneth Tynan, critico e autore teatrale), incontrato in Spagna qualche mese prima, che l’ha messo in un suo libro sulle corride. Lo sconosciuto si ritene molto vantaggioso. Non gli importa che dopo averlo utilizzato nei romanzi gli scrittori si arricchiscano a sue spese. In cambio chiede solo ospitalità. Secondo loro, chiede ai ragazzi, a chi dovrebbe rivolgersi dopo il gran rifiuto di Somerset Maugham? Irving Shaw? Françoise Sagan?

Ecco, possiamo tranquillamente sostenere che la scrittura di Elaine Rita Brimber (questo il vero nome della Dundy) sia piena di “tipi”, un’affollata galleria di ritratti di gente stramba, o così convenzionale da risultare più assurda di tante persone sconclusionate.

Tornando alle analogie tra la chick lit anni Novanta e Il dolce frutto, scritto e ambientato nel cuore degli anni Cinquanta, oltre al tratto unificante della protagonista, decisamente simpatica e pasticciona, troviamo il tratto distintivo della coprotagonista, cioè la grande città, la capitale del momento. Ora Parigi è stata sostituita da Londra e New York, ma si tratta in ogni caso di città dove mezzo mondo sogna o ha sognato di abitare, perché lì vivono i “famosi” del momento. La descrizione della città è poi circostanziata, di solito con la messa in scena di una rivalità di quartiere (per esempio qui è Montaparnasse contro Saint Germain, come in “Sex and the City” abbiamo Manhattan contro Brooklyn), e la mappatura della città è focalizzata sui luoghi d’incontro, con l’esaltazione di un locale contro l’altro e l’esame dettagliato della fauna che li popola. In questi romanzi c’è sempre una competizione di stampo adolescenziale, la lotta a definire il “meglio” in qualsiasi campo e a cercare di appartenervi. La competizione si svolge in ogni campo: attori arrabbiati contro attori istituzionali, locali trendy contro locali altolocati, newyorchesi contro californiani, abiti alla moda contro vestiti vintage, case arredate contro loft cadenti; in tutti gli ambiti sociali è in corso una lotta dove si misura cosa bisogna adottare e cosa invece è assolutamente out.

L’unica grande differenza che si nota, tra la proto-chick lit di Elaine Dundy e quella recente, sta negli oggetti del desiderio. Sally Jay si muove in un ambiente disinteressato ai vestiti (i suoi hanno sempre bottoni strappati e stanno insieme per un intrico di spille da balia) e in cui il mito non è tanto arricchirsi quanto diventare famosi in campi come la letteratura, la pittura, il teatro, il cinema, la fotografia. Non v’è traccia di architettura, design, moda, finanza, diete e beauty farm, che invece nella letteratura degli ultimi due decenni hanno fatto la parte del leone tra i miti fondativi della formazione alla vita adulta.

Naturalmente, la vita disordinata e affascinante di Sally Jay, i suoi gusti, i suoi incontri e il suo humor pungente, riflettono in parte la vita vissuta da Elaine Dundy. Figlia di una malriuscita e anaffettiva coppia di genitori ebrei, presto separati, nata a New York nel ’21, e cresciuta selvaggiamente tra collegi e locali notturni di cui era appassionata sin dai quindici anni, andò ventenne a Parigi cercando di fare l’attrice di teatro, poi si trasferì a Londra dove sposò (non presto, a trent’anni) un marito più giovane e di genio, cui diede una figlia, avendone in cambio infelicità, ricatti e violenze psicologiche, ma anche suggestioni e utili conoscenze. Un tipico inferno domestico da intellettuali à la page. Kenneth Tynan, il marito, è anche l’autore del musical “Oh! Calcutta!”, una delle commedie musicali più replicate di tutti i tempi.

Infine, alcune notazioni stilistiche. La scrittura de “Il dolce frutto” è diretta, di servizio, cioè utile allo svolgimento della trama, del tutto priva di svolazzi lirici ma intessuta di notazioni brillanti e dialoghi credibili e veloci. È un romanzo fatto di comunicabilità spicciola ma scaltra, funzionale al dettato: intrattenere, divertire, raccontare, passare informazioni senza che il lettore si senta come se avesse in mano una guida turistica o una saggio sulla Rive Gauche. La ricerca di questa comunicabilità immediata, tuttavia, non lascia il passo a una scrittura sciatta. Il romanzo è anzi pieno di immagini ricercate senza avere l’aria di esserlo e di scene risolte con grande abilità. La bellissima descrizione del bar del Ritz e della fauna che lo popola; le notazioni sulla scoperta di Parigi, quando Sally Jay constata che se alcuni riescono a vedere l’eternità in un granello di sabbia o in un fiore di campo, lei ha avuto la sua rivelazione mistica sugli Champs-Elysées (“Tutto mi pareva un ricordo prenatale”); il racconto perfetto del mezzo stupro subito da un diplomatico italiano, in cui lei, pur senza avere alcuna colpa, riesce comunque a sentirsi in colpa; e la scelta delle immagini, spesso sorprendente: una notte Sally Jay torna a casa dopo l’ennesimo giro di locali, chiacchiere e bevute. Passa davanti a Le Dôme, celebre ristorante parigino, “buio, freddo e silenzioso, rincalzato per il riposo notturno. Le sedie e i tavolini erano ammucchiati davanti all’ingresso e il tendone era ripiegato; pareva che avessero arrotolato il marciapiede come un tappeto”.

Certo, nella chick lit contemporanea, di frasi così non se ne trovano.