Un ragazzo di origini modeste, già liceale di scarso profitto, dopo molte traversie emigra all’estero con l’obiettivo di diventare architetto e l’ossessione di “guadagnare denaro”. Per qualche anno nulla va come vorrebbe; lui però insiste e, grazie a qualche fortunato espediente, riesce infine a coronare i suoi sogni. Un giorno, dal dentista, un suo vecchio compagno di classe sfoglia una rivista patinata. In una foto riconosce l’ex vicino di banco, per via del modo pinguinesco in cui tiene braccia e polsi. La didascalia celebra i successi del Pinguino (così l’avevano soprannominato a scuola), divenuto possidente, architetto e immobiliarista in un paese esotico dall’economia emergente. Durante una delle solite serate al bar, il vecchio compagno di classe mostra la pagina del giornale alla scalcagnata corte di ex liceali. Sono trentanduenni con esistenze irrisolte, impieghi precari e malpagati, perlopiù scapoli. Insieme escogitano un piano per attirare in patria il Pinguino e provare a spennarlo, o perlomeno a raccogliere qualche scaglia della sua fortuna. Ce la faranno?
Questa trama, coi dovuti colpi di scena, è universale. Potrebbe benissimo essere ambientata nel 2010 a Milano, e invece è il soggetto dell’appassionante romanzo di Ferenc Körmendi, Un’avventura a Budapest, repêchage di un bestseller del 1932 (per una volta ad opera dallo stesso editore, Bompiani, che pubblicò la prima edizione). Kádár, l’emigrato arricchito (in Sudafrica), è un sassone di Transilvania che ha fatto il liceo a Pest ed è finito in trincea durante la Prima Guerra Mondiale. Kelemen è il compagno di scuola che nel 1929, insieme a una comitiva di semifalliti, prova a intrappolarlo. Dai tempi del liceo non si è mai mosso da Pest, dove conduce l’esistenza misera e tignosa della piccola borghesia che ha subito la guerra e la “repubblica sovietica ungherese” di Béla Kun e della controrivoluzione. Ricordate le condizioni economiche della famiglia di Gregor Samsa? Tenore di vita e precarietà sono i medesimi: “A Budapest non esistono affari, esiste solo la concorrenza, ” riflette Keleman. Un’avventura a Budapest è un romanzone che si legge a rotta di collo e ci precipita nel ritmo di lettura tipico di certi classici alla Defoe, alla Balzac, alla Roth (Joseph), cioè di quei romanzi che raccolgono la specificità di molti generi: di formazione, d’avventura, picaresco, sociale. Ci si sente il flusso della storia del XX secolo con l’assurdità degli slogan rivoluzionari e l’antisemitismo anticomunista; si partecipa dei gravi problemi di reinserimento di chi ha fatto la guerra; si prende posizione per le ragioni di coloro che vorrebbero lavorare in pace e invece subiscono ideologie e dittature senza partecipare né capirci niente. La trama è fitta e la scrittura è piana, con pochi dialoghi che spesso sono scorciatoie narrative; il tratteggio psicologico è solo abbozzato, come nei romanzi ottocenteschi. In patria, Ferenc Körmendi (di cui potete leggere meglio nella bella postfazione di Giorgio Pressburger) fu considerato autore di letteratura di consumo, a torto e solo perché non parlava di lotta di classe. Anticomunista e non antisemita (posizione liberale e borghese alquanto scomoda nell’Ungheria del ‘900), morì nel 1972 negli Stati Uniti, rifugio di molti ungheresi di successo.