Di solito, i malati immaginari sono insopportabili, a meno che non si tratti di ebrei triestini, ebrei newyorchesi o cattolici siciliani d’ispirazione brancatiana. Tra le eccezioni bisogna però inserire il moglianese (nel senso di Mogliano Veneto) Giuseppe Berto, di origine cattolico-bigotta, figlio di carabiniere. O meglio: più che di Berto parliamo del suo alter ego letterario, protagonista del romanzo Il male oscuro, pubblicato per la prima volta nel 1964 da Rizzoli e ora riedito da Neri Pozza, con impeccabile postfazione analitica di Emanuele Trevi. Berto, che ha tratto il titolo del suo libro da un passo di La cognizione del dolore di Gadda, racconta le vicende di un uomo nevrotico, fobico, lamentoso, guastafeste, passivo-aggressivo, afflitto da mille patologie, e, soprattutto, dotato di un sublime sense of humor. L’ispirazione è nettamente autobiografica.
Ecco come il protagonista descrive il contesto sociale del proprio esaurimento nervoso, facendo venire alla mente, a noi lettori contemporanei, le intolleranze alimentari e le allergie di innumerevoli nostri amici e conoscenti: “In conclusione dunque questo esaurimento era un bel mistero per quanto tutti sapessero tutto di ciò ossia non solo i medici da diecimila lire e quelli da cinquemila ma anche gli amici sia miei che di mia moglie ciascuno dei quali aveva già avuto l’esaurimento o l’aveva tuttora, e anche molte persone incontrate per caso al caffè o all’uscita dei cinema avevano avuto l’esaurimento esse stesse o almeno qualche loro parente stretto , e in questa grande abbondanza io non faccio in tempo a dire di qualche mia fobia come tanto per citarne qualcuna quella dell’ascensore o della nave o delle partite di calcio e dei concerti che subito salta fuori uno che ha la medesima cosa, perfino quando mi invento una di queste fobie tanto per darmi arie, come ad esempio la fobia del sesto piano per cui al quinto o al settimo ci posso anche andare ma al sesto no, perfino in questo caso dico vien fuori uno che giura di aver avuto tale e quale la stessa stravaganza e naturalmente sa come guarirla oppure è in grado di suggerire il medico proprio confacente…”. E così per altre per altre quattro pagine, sino al primo punto, e lo sottolineo perché la prosa di questo libro è uno degli stratagemmi narrativamente più coinvolgenti che possa capitarvi di leggere. Berto è un Marías molto più riuscito, perché nella sua prosa torrenziale e acrobatica, priva di stacchi e pause, inietta continui flussi di sferzante ironia e autoironia, col risultato che ci si sente come risucchiati dalla lingua di un formichiere: a volte si va avanti senza staccare gli occhi dal libro per un intero capitolo di cinquanta pagine senza punti né virgole, come quando il protagonista si descrive mentre a Roma, durante un luglio caldissimo, è alle prese con la scrittura del quarto capitolo del romanzo che certamente gli darà la gloria, e la moglie, donna dotata di “un ingegno stranamente fertile per ciò che concerne le atmosfere da litigio”, è finalmente in montagna con la bambina, e perciò nella casa libera e silenziosa si verificano le condizioni ideali che sono il sogno di qualsiasi scrittore: niente scocciature, niente orari, nessun impegno che non sia scrivere e scrivere; ma lui, come spesso capita a chiunque faccia il suo mestiere, va in paranoia e gli viene quasi da sognare un’esistenza alla Zalone in Quo vado?, film sulla brama di un posto fisso statale, di cui in effetti Berto avrebbe potuto essere co-sceneggiatore data l’implacabile vena umoristica (“Signore Iddio eccomi pentito, quanto sarebbe meglio lo stipendio fisso e le vacanze pagate e alla fine la dignitosa pensione”), e comunque il protagonista questo dannato quarto capitolo proprio non riesce a scriverlo (“inoltre io a differenza del fero allobrogo – Vittorio Alfieri, ndr – mi trovo al presente privo di domestici che possano legarmi”), finché, preda di reiterati attacchi di panico, non decide di partire per la montagna e raggiungere la mogliettina, una che “è buona quando io sto male però non posso star male sempre perché lei sia buona”, che ha un’attitudine irrefrenabile a sperperare quel denaro che il protagonista non riesce a guadagnare perché impegnato a scrivere il capolavoro che gli darà la gloria pur non riuscendo ad andare oltre il terzo capitolo, una che passa la vita “comprando tutte cose di cui abbiamo scarso bisogno”; e già che c’è, Berto mette in questo esilarante capitolo di fobie e nevrosi anche l’eterna polemica contro i radicali e la cricca dei Cassola, dei Bassani, dei Milano, dei Vittorini, dei Moravia (che “intorno a ogni idea nuova scrive un romanzo vecchio”), della Maraini (da lui anagrammata in Maria Damerini), e “vedremo se non l’avrò anch’io la mia porzione di gloria, con le mie sole forze la conquisterò e non con gli intrighi e le amicizie e le bassezze come fanno tanti”, e però intanto non scrive il quarto capitolo e così, preoccupato di soccombere in una devastata solitudine, mentre non scrive, parte dunque per la montagna e sbarca nella pensione dov’è alloggiata la moglie con la bambina, il che gli consente di descrivere in modo ironico e sprezzante la comunità dei villeggianti e di dare sfogo, nella claustrofobia della corona dolomitica, a tutta una serie di ossessioni, in particolare quella per la linea retta, ingigantite dalla “funesta incombenza” dello Sciliar, sinché alla fine viene in mente anche il Jep Gambardella di La grande bellezza, che non scrive mai il secondo romanzo perché è uscito troppo spesso la sera, mentre il nostro protagonista non scrive il fatidico quarto capitolo perché si è fatto prendere da troppe nevrosi.
Ecco, se siete arrivati senza troppa fatica alla fine di questo mio interminabile periodo, maldestra imitazione dell’incomparabile stile de Il male oscuro, a maggior ragione vi pascerete del ritmo travolgente, da monologo teatrale, messo in scena da Berto per questo suo romanzo che non ha nulla a che vedere con lo stile dello stream of consciousness joiciano, ma usa un tono da racconto intimo travolgente, che mira al sé ma anche al lettore, in una teatralizzazione narrativa della goffaggine, con uso reiterato di aggettivi preposti al sostantivo che finiscono per generare un effetto comico, da commedia dei sogni infranti, dei fastidi, delle paure, dei sensi di colpa, in pratica la rappresentazione di un’esistenza in cui tutti giocoforza finiamo per riconoscerci.
Pensate, e io penso a me e a tutti gli amici che fanno lavori letterari o artistici senza essere assunti né contrattualizzati da chicchessia, pensate all’esistenza da atleti della scrittura a cottimo di tanti di noi. Ebbene, il racconto del protagonista alle prese con un produttore cinematografico scaltro, cazzaro, truffatorello è memorabile. Il commendatore bidonista (ispirato al produttore Amato) che vaneggia di soggetti cinematografici sconclusionati, vive al Plaza di Roma e, quando c’è da pagare le sceneggiature e i soggetti non si fa trovare, e crede che sia sufficiente compensare il protagonista portandolo con sé tipo cavalier servente “a Parigi al famoso Giorgio Cinque dato che questi produttori magari hanno buffi da tutte le parti però l’albergo lo vogliono di prestigio com’è giusto del resto perché il loro lavoro si basa principalmente sulla messinscena”. Questo produttore è il tipico soggetto con cui ognuno di noi, specializzati oltre che in scrittura in riscossione crediti, ha quasi quotidianamente a che fare.
Pensate al rapporto col padre, che è poi l’espediente narrativo de Il male oscuro. Il senso di colpa verso questo padre ex carabiniere, cappellaio di Mogliano Veneto e negoziante sempre sull’orlo del crack, privo di capacità imprenditoriale e sgrammaticato autore di lettere che disgustano il figlio per via dei congiuntivi difettosi, è il motore delle azioni e non azioni del protagonista. Come in La morte del padre di Karl Ove Knausgaard, gran successo editoriale degli ultimi anni, il figlio è agito da un eterno, inestinguibile, acerrimo malessere nei confronti del padre, tra l’altro morto nelle prime pagine de Il male oscuro tra atroci dolori dovuti a un cancro intestinale, curato da chirurghi bugiardi e incapaci e da suore spietate, mentre il figlio è alle prese con i capricci di una vedova francese che invece di lasciarlo al capezzale del padre moribondo lo tiranneggia, e si fa portare a Venezia per giocare nel casinò avvolto da una coltre di nebbia. Nelle pagine di Berto, la cupezza scandinava di Knausgaard diventa ricerca del dettaglio grottesco, spesso esilarante.
Pensate alle vostre paure e vigliaccherie, ai vostri imbarazzi e pregiudizi. Per esempio, l’incontro con lo psicoanalista che tanto lo aiuterà, e su cui all’inizio è decisamente prevenuto per via della bassa statura e dell’accento meridionale di un “ometto nato chissà dove ma sicuramente in una località forse campestre al di sotto di Roma”. Con paragrafi e paragrafi sul comico tormento del protagonista, mai stato prima in analisi, preda del dilemma delle scarpe: toglierle o non toglierle quando si è sdraiati sul lettino, inchiodati tra la paura di indossare calzini forse puzzolenti e quella, trasmessagli dalla moglie dittatoriale, di sporcare i divani del salotto con le suole delle scarpe?
Pensate ai vostri scontri con i poteri forti, alle vostre lagnanze e al vostro sentirvi incompresi, alla denuncia “dei gruppi organizzati maschili o femminili o così e così i quali sono troppo impegnati nel farsi pubblicità, nel darsi premi, nel dedicarsi saggi e critiche in sommo grado encomiastici, nel raccomandarsi l’un l’altro presso editori e direttori di giornali anche all’estero, e io si capisce in concorrenza con loro non potevo far niente perché ero isolato e quanto mai fiero di esserlo”. Che poi, a voler identificare il protagonista con Berto stesso, andrebbe detto che in realtà vendeva milioni di copie, anche all’estero, e ricevette il Viareggio e il Campiello a pochi giorni l’uno dall’altro, e che mieteva successi come sceneggiatore, e dunque tanto isolato e incompreso Berto non doveva poi esserlo.
Pensate alla paura di essere incastrati tipica del maschio italico, anche di quello dei giorni nostri: lui è sempre una vittima, vittima di donne che lo vogliono sposare, che vogliono spendere i suoi soldi, che si fanno mettere incinte per incastrarlo. Qui va detto che Il male oscuro si fa autobiografico con una vena di prudenza, e lo dimostra anzitutto il trattamento narrativo destinato alla figura della vedova francese (che invece era una designer argentina) e della moglie (che fu ben più cornificata nella realtà dei fatti di quanto racconti il romanzo). Come tutti i grandi scrittori, Berto è sdoppiato: è la persona che soffre ma anche quella che si chiede come utilizzare questa sofferenza nel proprio lavoro. Come ha scritto Joan Didion, “uno scrittore vende sempre qualcun altro”. E nella fattispecie Berto vende se stesso e i propri cari, con alcuni piccoli aggiustamenti, tali da non ferire eccessivamente la moglie e la figlia, da vendicarsi con la ex (la designer argentina) che doveva proprio averlo esasperato, da minimizzare o schernire le persone incontrate durante la propria vita, ma sempre al fine di costruire una trama, una storia che stia in piedi dal punto di vista narrativo e letterario. Philip Roth consigliava di “scrivere come se i genitori fossero morti”: genitori, coniugi, fidanzati, figli, amici… È la linea di Berto, che però sente di doversi giustificare e dunque si premura di avvertire i lettori: “Da quando Flaubert ha detto ‘Madame Bovary sono io’ ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone. L’autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura potessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo”.
Molto altro si potrebbe dire, ci sono pagine e pagine de Il male oscuro che andrebbero descritte per il puro piacere di ripercorrerle, ci sono aneddoti della vita e degli scontri di Berto che andrebbero raccontati perché assai gustosi, ci sono ridicole critiche mosse alla sua prosa o ai suoi temi o alle sue idee da critici sopravvalutati che andrebbero messe alla berlina tanto sono muffite; ma alla fine la cosa migliore per tutti è non perdere tempo e immergersi nelle pagine impareggiabili di questo grande romanzo italiano e, al contempo, universale. Altro che Franzen, altro che Safran Foer.