Da tempo la narrativa italiana è infestata da un’epidemia di kitsch, dal rococò dei dialettismi. Se sei campano, sardo o siciliano infiori i tuoi romanzi di svolazzi linguistici, e i lettori sono in trappola. Pensano: “Questa è la verità del parlato, la fiction che non finge”, e il romanzo va in classifica. Il critico Massimo Onofri definisce questo genere di prosa “falsa ed eclatante, come uno sgargiante gioiello di bigiotteria”. Ma non è l’unico trucco in voga. In un recente articolo proprio su queste pagine, Alessandro Piperno ha stigmatizzato lo sfruttamento dei bambini a uso narrativo. Basta mettere un po’ d’infanzia violata e offesa, ed ecco conquistato il pubblico. Se poi all’infanzia violata aggiungi un tocco di camorra, ‘ndrangheta, mafia, fai tombola. Criminalità organizzata, più bambini vilipesi, più lingua sporca e inventata sono ormai da anni la formula del successo, sia quello raggiunto sia, conseguentemente, quello tentato, nonché la nostra dannazione letteraria. Giuseppe di Piazza, l’autore del libro di cui stiamo per parlarvi, è di Palermo. Ha vissuto, studiato e iniziato a lavorare lì. Ed è un giornalista. Sono tutti segnali d’allarme. Oddio l’esordio narrativo di un giornalista, oddio un siciliano e i suoi cliché folkloristici, oddio la mafia. Si è prevenuti. Del resto, la prevenzione salva da un sacco di scocciature e di incidenti. Evitare i quartieri malfamati, le carinerie degli uomini sposati, i regali degli sconosciuti, i libri con ingredienti piacioni e midcult: grazie alla prevenzione ci siamo salvati spesso la vita e il tempo libero. Poi ci sono le sorprese, e I quattro canti di Palermo è una sorpresa. Un romanzo a episodi, ambientato a Palermo, all’inizio degli anni Ottanta. Nella città è in corso una guerra, non dichiarata ma effettiva. Ogni giorno qualcuno muore di morte violenta. Non ci sono truppe Nato a difendere i cittadini, cui tuttavia può capitare di finire nella traiettoria dei proiettili di un’esecuzione, di scorgere una testa mozzata sul sedile di un’auto, di inciampare in un tallone piantato sull’asfalto dopo un’esplosione. Intanto, questi cittadini comuni non interrompono la propria vita ordinaria: fanno la spesa, cucinano la pasta, leggono buoni libri, imparano a memoria le canzoni di Venditti. Sono abituati. Questo è il contesto in cui sono ambientate le storie che compongono il romanzo di Di Piazza, come in un serial: un unico protagonista, un’unica città, un unico contesto. In quattro scatti narrativi. Abbiamo un giovane cronista-detective, un amico studente con cui condivide l’appartamento, una gatta, le feste e i nuovi incontri, i desideri di donne, di cibo, di canzoni, di poesie, la voglia di legami sinceri e intensi, tuttavia non soffocanti. Questo ragazzo, che vive con passione il proprio lavoro di cronista, anziché esposto al flusso e alla ripetitività della cronaca nera comune a ogni luogo abitato, vive il clima soffocante di una guerra di mafia che pare eterna e inevitabile, una guerra che in poco più di dieci anni, tra la fine dei Settanta e l’inizio dei Novanta, produce migliaia di morti. Così, sull’incanto del mare, sull’incontro con una ragazza francese, sulle amicizie grava un’atmosfera malata di sospetto e cautele, perché a Palermo nulla è privo di conseguenze: basta un po’ di disattenzione e, anche senza incappare in una sparatoria, ci si trova avviluppati in incontri che sarebbe stato meglio non fare, in scene che era opportuno non vedere, in gesti innocenti che però finiscono per coinvolgere gli interessi di qualche pericoloso personaggio in odore di mafia. Il romanzo, narrato in prima persona, con un tono rievocativo che alterna malinconia e spensieratezza, spaventi e accensioni amorose, è scritto – finalmente – in quell’italiano corrente e corretto che quasi tutti abbiamo imparato a scuola e che generalmente usiamo per dialogare, a patto di non essere i protagonisti di un’opera della recente narrativa italiana. L’andamento narrativo ci appassiona perché miscela con armonia le note gialle, quelle dell’indagine, e le note private, in cui molti di noi ritroveranno i titoli delle canzoni, dei libri, e i temi dei pensieri della generazione diventata adulta negli anni Ottanta. Oltretutto le quattro storie scelte da Di Piazza sono particolarmente avvincenti perché più che di mafia sono di atmosfera mafiosa: non riguardano la dimensione degli appalti, della politica, del riciclaggio, ma quella più intima della mentalità mafiosa e della sua influenza nefasta sull’esistenza di individui che tentano di sfuggire alla trappola sociale in cui sono immersi. Di Piazza racconta gli uomini e le esistenze distrutte dalla violenza con felice precisione nella scelta dei dettagli e delle motivazioni psicologiche, ma tratteggia anche un ritratto vivido di Palermo, a tratti splendida, da cartolina, con quel clima, quella luce, quel mare, e a tratti mostruosa, aliena, affogata nei suoi toni cupi: “L’Ospedale dei Bambini sembrava un carcere cileno. Grigio, cubico, mancavano solo i nidi di mitragliatrice agli angoli e il filo spinato intorno”. Una Palermo il cui più bel crocevia è quello dei Quattro canti, come gli storici cantoni che la compongono.