Sono nati con l’idea di stimolare le fantasie dei gommisti, dei meccanici, dei carrozzieri. Fantasie caste, per carità. Perché se vai a vedere le foto dei calendari Pirelli dei primi anni ’60, ti rendi conto che a quei tempi c’erano romanzi e fumetti e film che scaldavano il sangue più di tutti calendari anni ’60 e ‘70 messi insieme. La Silvana Mangano di Riso amaro (1949), per esempio, è infinitamente più sexy della ragazza longilinea e acefala ritratta a fare giugno nel calendario Pirelli ’68. Il fotografo Harry Peccinotti le ha infilato una maglietta di un cotone così spesso che, sebbene bagnata, per vedere l’ombra dei capezzoli ci vuole la lente d’ingrandimento. Però le ha messo tutt’intorno solo sabbia bianca e finissima, anziché zanzare sfrigolanti e orride risaie zeppe di sanguisughe. E la suggestione è tutta lì. Non bastano cosce e carni piene e sode al punto giusto (qui peraltro di nudo ci sono solo braccia magre e mani affusolate dalle lunghe unghie); non basta nemmeno un bel viso (la testa è rimasta fuori dallo scatto): ci vuole la suggestione esotica e marina, a evocare un rotolarsi e un bagnarsi che non sono tanto sesso quanto evasione dalla cabina del camion, dal garage, dal bilocale con la cucina ingombra di biancheria stesa, perché fuori piove.
Col tempo, col crescente successo, col prender piede del fenomeno del collezionismo dei calendari Pirelli, è nata l’ambizione di passare dall’allusione raffinata a un approccio più arzigogolato (o “arty”, come lo definiremmo adesso) lasciando libero sfogo a fotografi di fama. Il risultato è stato spesso quello d’un cerebralismo erotico che fa guardare con più simpatia la cameriera cosciona in pantacollant nel bar sotto casa, che una delle supertop ritratte nel susseguirisi delle annate. Forse il discorso non vale per i maschi, ma per una donna queste immagini artefatte sono le negazione dell’erotismo, quasi quanto le foto nelle riviste di moda, spesso così complicate da favorire qualsiasi suggestione tranne quella dell’abito che ti si vorrebbe far comprare .
A conferma della burinaggine internazionale degli anni ’80, che proprio per questo li ha resi memorabili, converrà dare un’occhiata alle foto di Norman Parkinson (1985: backstage dorato di sfilata, in stile porno soft) e a quelle di Bert Stern (1986: brutte composizioni di brutti quadri, con modelle mostrizzate dall’estro artistico del pittor-fotografo). Ma nell’87 si torna a una grande raffinatezza: splendide femmine ambrate, ritratte in studio su fondali che evocano le nuvole veloci dei cieli africani.
Immancabile, e ricorrente negli anni, il tema della natica cingolata. Decisamente più piacevole l’altro soggetto ciclico, quello delle natiche insabbiate; la più bella delle quali resterà nei secoli quella di Naomi Campbell, ritratta da Richard Avedon nel luglio ’95: di spalle, o meglio di sedere, con la sabbia appiccicata sulle sporgenze e un movimento sinuoso pur nella fissità dello scatto, una serpentina coscia-gluteo-scapola-collo-profilo che ce la fa amare sui due piedi nonostante le prepotenze e gli isterismi che accompagnano la sua vita. Sempre in tema di foto memorabili, è del calendario ’98 di Bruce Weber l’arcinota foto di Eva Herzigova in grembiulino tette e spaghetto; se la Francia ha la Marianna, e gli Stati Uniti la Statua della Libertà, noi dovremmo farci rappresentare da quella foto di allegra voluttà, per cercare di modificare l’incupita immagine nazionale.
Invece i fondali livido metropolitani del 2002, ritratti da Peter Lindbergh con modelle stranite dal contesto umido e ferroso, ricordano appunto le pagine delle riviste di moda, quando pur di mostrarti un vestito in modo originale non sanno più cosa inventarsi, e te lo ambienterebbero persino tra i reattori di una centrale nucleare.
Sono del 2004 le foto fantasy di Nick Knight, che ai poveri gommisti avranno fatto venire un colpo: colori pop e anilinici, corpi appena suggeriti, efferatezze evocate con schizzi che parrebbero di sangue su muri lerci di stanze squallide, fiorellini e luci che trafiggono spazi come fossero raggi divini. Agli utenti primari del calendario (non ai collezionisti ormai scaltriti) queste raffigurazioni femminili avranno dato sui nervi, più o meno come quando al pubblico dei concerti capita che certi cantanti propongano solo pezzi ignoti e disarmonici in luogo dei brani celebri che li hanno resi famosi.
Sfogliando i calendari noterete che, tra tanti sederi e tante bocche e tanti seni, paiono assenti i gonfiori che segnalano il lavoro dei chirurgi plastici. Si vedono microtettine, labbra a fessura, glutei piatti, volti irregolari e corpi affascinanti ma non sempre armoniosi. E laddove manca lo stereotipo delle dimensioni delle forme femminili, subentrano però le forme della cosiddetta location (tropici, acque cristalline, dune lucenti), sottolineate dall’enfasi scintillante dell’immagine pubblicitaria.
Tenete poi conto che s’avvicina il Natale e non si sa mai cosa mettere sul tavolo in salotto, tra torroncini spaccadenti e pot-pourri, con tutti gli ospiti, le vecchie zie e i nipotini, che andranno avanti e indietro per casa scartando regali, spegnendo sigarette nel piattino sbagliato, pestando la coda al cane. Immagini come quelle dei calendari Pirelli riusciranno a tener buoni almeno una buona metà dei vostri invitati; calamiteranno l’attenzione delle vostre ospiti, essendo ormai le signore e le ragazzine sempre più insicure delle proprie forme e del proprio stile, dunque bisognose d’un continuo confronto con corpi nudi femminili. Potranno venir illustrate ai bambini, tanto per mostrargli che esistono anche seni che non esplodono da costati ossuti, come quelli che vedono abitualmente in televisione. Intratterrano insomma le famiglie come succedeva una volta con la tombola o la battaglia navale.
E soprattutto, dopo aver sfogliato centinaia di pagine ed esaminato quarant’anni di corpi seminudi – più o meno belli ma tutti irrevocabilmente magri, asciutti, tonici – i cinque volumi di calendari fungeranno da deterrente all’abboffarsi tipico della stagione e delle feste.