Camilla Baresani
Autore: Maeve Brennan
Titolo: Racconti di New York
Editore: BUR
Anno di pubblicazione: 2010
Prezzo: €9,90

Sommario

MAEVE BRENNAN – Racconti di New York

- Il Sole 24 ore - Domenica - Recensioni
Le magagne della borghesia newyorkese “medio-fine”, magagne sociali e comportamentali, sono il tema principale dei racconti americani di Maeve Brennan. Pretenziosità, inadeguatezze malcelate, piccinerie, furbizie, bevute, grigiore intellettuale camuffato da buone maniere, ridicolaggine. Ma la Brennan non scrive racconti di denuncia. Il suo non è il tono sferzante di chi osservi regole che gli altri disattendono. Lo sguardo narrativo è invece quello di una spettatrice neutra benché intrisa della stessa cultura borghese dei suoi personaggi, intossicati da quei problemi di accettazione sociale e solitudine che anche la Brennan dovette affrontare. Figlia di un diplomatico irlandese, nel ’34, a diciassette anni, si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti. Conservò per tutta la vita l’accento irlandese, che a New York era considerato un’esclusiva di cameriere e poliziotti. Bellissima e minuta, lavorava invece come copywriter di Harper’s Bazaar e, dal 1949, come redattrice del New Yorker. Nei suoi racconti e negli editoriali scritti per la celebre rubrica Talk of the town, raccolti in Racconti di New York, la Brennan si limita a prendere atto degli sforzi che si fanno per riuscire o anche solo per apparire, sforzi cui lei stessa deve essersi sottoposta, pur senza troppa convinzione e con crescente disagio. Verso i cinquant’anni si abbandonò a un autolesionismo alcolico che la portò a vivere un’esistenza da emarginata, fino alla morte avvenuta nel ‘93. L’enfasi degli strilli pubblicitari riportati in copertina cela spesso operazioni editoriali rappezzate, e con questa raccolta di racconti capita come con le antologie discografiche: una somma di canzoni giuste e sbagliate, o solo riempitive, per dar sostanza a un’operazione che si basa su pochi pezzi riusciti. Poiché non si possono stampare volumi di cinquanta pagine vendendoli a un prezzo che ne giustifichi il costo, li si zavorra con pagine non memorabili. In questo caso i racconti più riusciti sono quelli posti a metà del volume (“Il caminetto divino” e “Il ballo della servitù”). Il resto però non nuoce, al limite scivola sul lettore contribuendo però a fargli approfondire il mondo della Brennan, fatto anche di personaggi e luoghi ripresi in modo seriale di racconto in racconto. Intenerisce, diverte, commuove quella sua “vista acuta da passero” (come la definisce John Updike nella postfazione, che però si riferisce a una raccolta degli editoriali del New Yorker, qui presenti in una scabra selezione). Vista esercitata osservando le malinconiche e spesso maldestre esibizioni di successo sociale messe in scena nelle case del week-end, a pochi chilometri dalla città, lungo la riva orientale dell’Hudson. Oppure camminando nel flusso umano dei canyon scavati tra i grattacieli di Manhattan, o al bancone di cocktail bar dove si esercitano le solitudini di gente che vive un’esistenza precaria, sradicata, da una camera d’affitto all’altra. Uomini e donne che si chiedono “se non sia troppo presto per un martini, e poi… mah, si può fare”. Perché, “per dirla in maniera un po’ semplicistica, in genere esiste una sola cosa che desideriamo fare e che ci fa male, mentre se ci sforziamo di compiere gesti buoni o virtuosi la scelta è così grande e ampia che alla fine ci stanchiamo ancora prima di decidere”.