È il 2 luglio 1571. Nella basilica di San Marco, a Venezia, una cerimonia solenne proclama l’alleanza della Lega Santa. Da un lato, Papa Pio V, il re di Spagna Filippo II e la Serenissima; dall’altro, Solimano il Magnifico, che ha conquistato Cipro, baluardo della cristianità latina e fonte di ricchezza e traffici per Venezia. Alla cerimonia segue una parata politico-religiosa di sfarzo inaudito. Argenterie e ori esposti su tribune mobili. Una di queste, come riporta un documento del tempo, raffigurava «una barchetta guidata da un moro nudo con le ale e le corna che pareva proprio un diavolo, credo che rappresentava Caronte, e nella sua barca vi era dentro un vestito da turco». E poi il Doge, ambasciatori e «gentil’huomini Veneziani vestiti tutti di cremisino, non vi dico poi il rumore e le allegrezze che si fece di campane… tale che non si vide mai il più bello apparato da che Venezia è Venezia».
Quasi dispiace non esserci stati quel giorno, col moro nudo e i veneziani drappeggiati di velluti, rasi e damasco. Ma è uno dei pochi momenti festosi raccontati in Venezia e l’Islam dal bizantinista Renato D’Antiga, studioso del culto delle reliquie di santi orientali. Dall’840, data di una disastrosa sconfitta della flotta veneziana contro i turchi a Taranto, fino al 1716, con la vittoria trionfale di Corfù, D’Antiga ci racconta il conflitto di civiltà e traffici che caratterizzò il fitto rapporto tra Venezia e l’Islam. Il resoconto, interessantissimo e ricco di dettagli iconografici (il libro è corredato di molte illustrazioni), mostra una conflittualità continua e spietata. Ecco per esempio cosa successe al governatore di Cipro Marcantonio Bragadin, che resisteva nella fortezza di Famagosta dopo lo sbarco degli ottomani: il comandante turco Mustafà lo catturò e lo fece scuoiare vivo, per poi impagliarlo e spedirlo a Costantinopoli come trofeo da conservare nell’arsenale. Ma nel 1580 la famiglia Bragadin riuscì a far trafugare il macabro reperto, facendolo poi collocare nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, sotto un suo busto a grandezza naturale.
Non si contano le scorrerie dei veneziani per trafugare reliquie di santi. Del resto, la storia stessa di Venezia inizia con un avventuroso furto di spoglie sacre. Le popolazioni venetiche, rifugiate in laguna per sfuggire ai barbari e sottoposte alla blanda tutela dell’imperatore di Costantinopoli, cominciarono a temere di finire sotto l’occhiuto e turbolento dominio carolingio. Per rafforzare il nascente ducato, c’era bisogno di un nuovo santo patrono, che unisse il presente con i primordi della predicazione evangelica nella Venetia. Si decise dunque che l’evangelista Marco, il cui corpo era custodito nella chiesa di Bucoli ad Alessandria d’Egitto, diventasse il talismano religioso – e soprattutto politico – di cui la città e il Doge avevano bisogno. Ma l’Egitto era caduto in mano agli arabi, e fu solo grazie agli stratagemmi di due mercanti veneziani che si riuscì nella “translatio” del corpo del patrono di Alessandria.
In seguito alla IV crociata, a partire dal 1204, cominciò ad affluire a Venezia una gran quantità di reliquie di santi orientali. Tra furti, scambi e regali, oggi le chiese veneziane custodiscono più di un centinaio di frammenti sacri. Con la guida di Venezia e l’Islam, potete costruirvi un singolare itinerario veneziano, sulla traccia di questi cimeli corporali per il cui possesso persero la vita in tanti.
Renato D’Antiga, “Venezia e l’Islam, santi e infedeli”, pagg. 120, Casadei Libri, €16