La vita facile di Richard Price è un romanzo poliziesco: racconta l’indagine sull’omicidio di un barista mezzo sbronzo che, con due amici altrettanto ubriachi, camminava di notte lungo un marciapiede del Lower East Side di Manhattan. Letteratura di genere, si sarebbe detto un tempo, mentre ora, nobilitata da uno stuolo di appassionati, viene ritenuta letteratura tout court. Spesso l’attribuzione è anche meritoria: capita che queste appassionanti crime story esplorino, con vigoroso realismo, grovigli etnici di quartieri sovrappopolati, conflitti sociali, psicologie complesse. Ovviamente i protagonisti si esprimono in ogni possibile forma di slang, di lingua contaminata, di inflessioni dei paesi di provenienza. Tutto il contrario di quello che troviamo in un romanzo di Philip Roth, le cui voci perlopiù appartengono a professori universitari, a studenti, ad assicuratori, a ragazze sprovvedute e tuttavia alfabetizzate. Paradossalmente, quindi, per la versione italiana dei romanzi dell’eccelso Philip Roth basterebbe un discreto traduttore che conoscesse la lingua letteraria, corretta, standard: quella insegnata all’università. Mentre per tradurre Richard Price o – peggio (meglio?) – James Ellroy, autori “di genere”, ci vuole il migliore dei traduttori in circolazione, uno che, alle prese con modi di dire estemporanei, gerghi, frasi idiomatiche, coreanismi, pakistanismi, russismi, li sappia capire e poi li renda in un italiano né ridicolo né finto. E qui arriviamo alla versione italiana di La vita facile, romanzo scelto da Obama per le sue vacanze estive, ben recensito oltreoceano e anche qui da noi. Ma, viene da chiedersi, i recensori nostrani l’hanno forse letto in inglese? Perché, certo, la storia è avvincente, le descrizioni realistiche e spesso originali, la trama ben costruita, i dialoghi secchi. Tuttavia ogni poche righe, sin dall’incipit, il lettore inciampa in frasi che bisogna rileggere più volte alla ricerca di un senso, che comunque resta introvabile: “…. In qualità di direttore del caffè Berkmann, la nave ammiraglia del “venite quaggiù” (?), nei rari giorni in cui la Bestia schiacciava uno dei suoi pisolini, gli piaceva essere una componente della battuta finale (?)”. La totale mancanza di senso è aggravata dal fatto che la “Bestia” non compaia altrove nel testo. Oppure: “Un’ora dopo, con il ragazzo in ghiaccio all’Ottavo, pronto per un altro paio d’ore di interrogatorio che probabilmente non avrebbero dato alcun risultato e qualche altra ora di scartoffie per Daley, il responsabile dell’arresto, una volta sistemato Daley tornarono fuori a cercarne uno per Scharf, un ultimo giro prima di ripiegare, nel caso fossero rimasti a bocca asciutta, su una violazione notturna del coprifuoco in uno dei parchi della zona”. Disastro. Un romanzo giocato sulla suspense non può permettersi frasi sconclusionate e indecifrabili su cui il lettore è costretto a inchiodare, chiedendosi se – dato che non capisce – valga la pena di saltarle, oppure si tratti di uno snodo della vicenda, e allora sia meglio cercare di decifrarle, procurandosi copia del romanzo in lingua originale. E che dire di soluzioni come: “uno dei due fratelli yemeniti eruppe dal negozio”, “smettere di accentuare il passo”, “fungeva da cassiere-portiere”, che denotano un uso a dir poco legnoso se non comico della nostra lingua? È vero: i traduttori sono pagati poco, e devono lavorare in fretta. Tuttavia, dando la colpa esclusivamente all’editore, si finisce per svalutare il lavoro di tanti altri bravi traduttori, altrettanto sottopagati.
Richard Price, “La vita facile”, traduzione di Stefano Bortolussi, Neri Pozza, Vicenza, pagg. 505, € 19,00