“Sai, da qualche parte in Italia c’è un muro coperto di frammenti di penne e di grumi di sangue perché ogni anno migliaia e migliaia di uccelli ci si lanciano contro e rimangono uccisi. Perché lo fanno? Non si sa”. Chi parla è il direttore di una rivista religiosa (ubriacone e non credente), e si rivolge a un’impiegata del gruppo editoriale per cui entrambi lavorano. Sono in un bar di New York, e la tirano in lungo bevendo un whisky dopo l’altro. Lei ha vent’anni, lui il doppio. Lei lo concupisce, lui si tira indietro: “Perché io ho i miei problemi e la mia bottiglia, e tu hai la tua giovinezza e il tuo futuro. Non c’è possibilità di scambio, Caroline, il danno è tutto per te e il guadagno tutto per me”. L’esempio del muro italiano con uccelli spiaccicati gli serve a dimostrarle che le donne fanno sempre i medesimi errori, intestardendosi su obiettivi (maschili, nella fattispecie) sbagliati. Le vicende di Caroline e di altre due ragazze di provincia sono raccontate ne Il meglio della vita (ma il titolo originale è più bello: The best of everything), di Rona Jaffe. E’ un romanzone travolgente, ambientato nel 1952 e pubblicato per la prima volta nel ’58. In America è ritenuto un classico come le canzoni di Sinatra, e da allora è continuamente ristampato.
Inizia nel più cinematografico dei modi: Caroline, in mezzo a “centinaia e centinaia di ragazze” esce dalla metropolitana alle otto di un gelido mattino newyorkese. E’ al primo giorno di lavoro e si dirige verso gli uffici della casa editrice Fabian, “cinque piani ad aria condizionata in un edificio moderno di Radio City”. Oltre alle tre protagoniste (tutte in prova alla Fabian, ma una vuol fare l’attrice, l’altra solo sposarsi, Caroline – assunta come dattilografa – aspira a diventare lettrice), il romanzo descrive un ambiente sociale con dettagli di vivido realismo e approfondisce una serie di personaggi che non risultano mai di mero contorno. La tirannica editor Amanda Farrow, per esempio, ricorda Miranda Priestly, la nevrastenica protagonista de Il diavolo veste Prada.
E le considerazioni elargite tra un whisky e l’altro dai dirigenti della Fabian alle – ancora per poco – ingenue ragazze sembrano registrate oggi in qualche mensa di casa editrice nostrana. In un certo senso questo romanzo è una lezione sul mondo dell’editoria – com’era e com’è rimasto. La sua estrema godibilità e narratività, che magari possono far sentire in colpa il lettore cosiddetto impegnato che desidera opere più autoriali, dimostrano l’assurdità di certi pregiudizi. Un buon romanzo è un buon romanzo, e sessant’anni dopo non ci resta che constatarlo. Non invecchia, acquista spessore col tempo, dimostra che la letteratura commerciale non è necessariamente cattiva letteratura. Qui i dettagli sociali e psicologici reggono il tempo, sono stringenti e, soprattutto, fanno riflettere su come gli anni ’50 del Novecento siano affini ai nostri: stessa voglia di riprendere a vivere nonostante i conflitti incombenti, stessi postumi di crisi economica, stesso desiderio di farcela nel trionfo dell’individualismo e della sfiducia nella politica. Il meglio della vita è in pratica una specie di genitore elegante di quei romanzi che oggi definiamo “chick lit” (genere Bridget Jones, per intenderci): intreccio, mondo del lavoro, amori e disamori, incidenti, bevute, gravidanze, illusioni… ma senza melensaggini, senza toni drammatici; anzi, con un continuo filo di tenue ironia e sdrammatizzazione. E con una quantità di osservazioni e dettagli di vita sociale da farne tesoro per la storia del costume.