A cosa dovrebbe servire la recensione sul giornale di una novità editoriale? Lo scopo dovrebbe essere quello di attrarre o distrarre lettori, a seconda della qualità dell’opera recensita. Diverso è invece il caso dell’elzeviro, che non è necessariamente legato a un libro appena edito, e prevede anche svolazzi e divagazioni: in questo caso è concesso a chi scrive qualche narcisismo interpretativo, quei riccioli e contorsioni che spesso sono la cifra e l’orgoglio dello studioso (e magari ne segnalano la frustrazione), il suo modo di dire: “guardate che ci sono anch’io, e sto sopra le cose che vado spiegandovi”.
Tuttavia, certe debolezze in materia di verbosa oscurità o di puro impazzimento egotico, dovrebbero essere bandite dalle pagine dei quotidiani. Il buon senso vuole che una segnalazione editoriale contenga informazioni sul testo recensito: breve riassunto, nel caso di un romanzo o di un saggio; oppure valutazioni sul criterio della scelta dei testi di una raccolta e sul lavoro del curatore; qualità dell’eventuale traduzione e, dulcis in fundo, un giudizio critico: il tutto espresso con ordine ed efficace chiarezza espressiva.
Ma non sempre le cose vanno così: si può anche immaginare l’imbarazzo di certi caporedattori che dovrebbero intervenire per censurare pezzi commissionati a noti intellettuali, e che si trovano in mano dissertazioni fuoritema o improntate a grovigli sintattico mentali del tutto inestricabili. Come dire all’estensore di volare un po’ più basso, di attenersi a un sano spirito di servizio e rispetto del lettore? Come non farsi un nemico e non innescare noiose sequele di telefonate dovute a un orgoglio ferito? E se poi il caporedattore stesso, un giorno, scrivesse un libro attirandosi recensioni invelenite del suddetto collega? Si chiude un occhio e ci si barcamena. Non si spiegherebbe altrimenti la recensione della scrittrice Silvana Grasso al Meridiano Mondadori che raccoglie le opere di Vitaliano Brancati, comparsa su “ttl”, inserto culturale de “La Stampa”. Il titolo (Una lettura ”ellenistica” della sua opera sposta il tirassegno critico dal dongiovannismo alla microscopia del languore, all’eternità dello sbadiglio) è pescato nel pezzo e ne è la frase meno involuta. Per il resto l’articolo parrebbe scritto prima “in chiaro” e poi volutamente criptato. La prosa semplice e pulita di Brancati è descritta in questi termini: “La provincia vuole scartavetrare da sé la lebbra del topos alla ricerca del San Gral del logos, abiurare il gospel e intonare la stecca dell’assolo. La provincia (Nissa-Caltanissetta o Natàca-Catania) è la nuova nefelococcugìa – la città di nuvole e cuculi di aristofanesca memoria – dove l’intellighenzia ripara dal cicaleccio miserabile della pletora e l’intelletto dalle rozze legioni misoneistiche. I coreuti della provincia siciliana, ingravidata d’Europa, filoneisti dissennati, intonano lo stasimo tragicomico del crucifige per mastro don Gesualdo, Akakim Akakievic (Il cappotto, N.Gogol) o i fratelli Gambi di Federigo Tozzi (Tre Croci)”. Tutto chiaro? Meglio leggere Brancati, e non se ne parli più.