Il “libro della vita” è quello che sfoderando una voce originale ed esemplare dell’autore riesce a interpretare in modo impeccabile qualcosa che c’è nell’aria, per cui sono maturi i tempi collettivi e individuali dei lettori. C’è chi lo scrive a vent’anni (per esempio Dave Eggers con “L’opera struggente di un formidabile genio”) e poi si trasforma in un fenomeno letterario sgonfio; c’è chi lo scrive a sessant’anni (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”). Ci sono fuoriclasse alla Philip Roth che ne scrivono due, tre, quattro!, e c’è chi invece, pur eccellente scrittore, romanzo dopo romanzo arriva a tirare le cuoia senza averne mai pubblicato uno. Da lettrice e da scrittrice sento che “La più amata” è il libro della vita di Teresa Ciabatti.
Probabilmente lo sapete, dal momento che sono uscite molte recensioni e il romanzo è candidato alla vittoria dello Strega: “La più amata” è una storia a sfondo autobiografico, con impeccabili omissioni di dettagli non funzionali all’ossessione della protagonista/scrittrice, ossia l’indagine sull’identità del padre e dunque sulla propria, che è rimasta inceppata dopo la morte dei genitori. La Ciabatti, con la scusa di ricostruire le personalità della madre – abbastanza lineare – e quella del padre – enigmatica – si mostra straordinariamente concentrata su se stessa anche quando sembra parlare d’altro, e ci trascina nella sua vita e nel suo sguardo, attraversando il periodo che va dal concepimento, alla nascita, all’adolescenza, fino alla maternità attuale e alla scrittura e all’editing del libro che stiamo leggendo. Sullo sfondo non c’è la cronaca, non c’è la società, non ci sono slanci per idee o persone singole o gruppi sociali estranei all’ambito familiare… ci sono invece tutte le cose (o le persone) che nel ricordo della Teresa scrittrice ruotavano intorno alla Teresa infante, bambina, adolescente, adulta.
La particolarità della famiglia Ciabatti, quella buona per scriverci gli articoli e le recensioni, è che il padre di Teresa oltre che primario dell’ospedale di Orbetello, oltre che uomo pieno di proprietà immobiliari e di conti in nero e lingotti nel cassetto, non è il solito riccastro immorale dei romanzi morali, è di più, è un personaggio di oscuro e inquietante potere, avvolto in segreti e bugie per via dell’appartenenza a primarie logge massoniche dei tempi della P2. Tutto il resto della storia e dei familiari è invece nella norma – nella norma positiva voglio dire. Nessuno si picchia a sangue, nessuno muore di fame, anzi, ci si vuole persino bene, si hanno soldi per viaggiare, vestirsi, fare capricci, litigare. Quando la mamma rompe le scatole per via dei tradimenti del marito massone e cornificatore, e il marito le diagnostica la sindrome della casalinga inquieta (il famigerato esaurimento nervoso), l’uomo, il padre di Teresa, anziché bruciare la moglie con l’acido e accoltellarla a morte o rinchiuderla in un manicomio, le fa fare la cura del sonno, in quegli anni molto popolare e praticata sistematicamente a ogni casalinga borghese infelice e rimostrante. L’unica differenza è che lei ha il privilegio di farla a casa invece che allontanata dai propri cari in inquietanti cliniche dove le coscienze femminili vengono manipolate da psichiatri di dubbia etica, al soldo dei mariti.
La cosa curiosa di questo romanzo zeppo di materia autobiografica è che non succede chissà che, a parte il padre misterioso – peraltro misterioso come tanti padri del passato, padri degli anni in cui il concetto di trasparenza familiare non era certo la norma. “Taci tu che non sai niente”, è stata per secoli la frase totem dei pater familias di tutto il mondo. Teresa Ciabatti drammatizza l’ordinario ancor più che lo straordinario, e sceglie i dettagli e le scene da raccontare con uno stile personalissimo, cosa che come sanno i buoni lettori distingue un vero scrittore da un mestierante: avere uno stile personale è tutto. Conta infinitamente più della trama. Dopo aver letto “La più amata”, se mi mettete sotto il naso una pagina della Ciabatti senza dirmi chi è l’autore, so riconoscerla, come nella vecchia réclame del Dash con la casalinga bendata. È uno stile sceneggiato, in presa diretta, ardimentoso, mascolino nonostante l’esibizione di svenevolezze da bambina capricciosa. Il motivo del successo di questa scrittrice è che oltre ad aver capito quello in cui è davvero brava, cioè parlare di se stessa, oltre ad aver giustamente scelto di mettere in scena la propria ossessione, lo ha fatto con tono grintoso, fluido e spiazzante al punto giusto. Infatti, allo stile va aggiunto il coraggio di mettersi sempre al centro della scena, di usare tutti gli altri – padre, madre, l’inesistente fratello – come pupazzetti che servono solo a spostare i riflettori su Teresa Ciabatti, che ci è tanto simpatica in quanto ha il coraggio di rappresentarsi antipatica. Di solito, rifuggo dalle storie con infanzia offesa o infanzia compiaciuta, e comunque non sono appassionata dello sguardo da bambino sulle cose dei grandi, preferisco quello contrario: qui abbiamo un’adulta che osserva il sé bambina con appassionante spietatezza, fingendo di non giudicarsi.
Nella seconda parte del romanzo, ogni tanto mi è venuto da pensare “e allora? qui gira a vuoto, drammatizza delle cavolate, fa la vittima, mi annoio”. Ma ecco subito un guizzo della scrittura, tipo coniglio estratto dal cappello, che solleva con lo stile dell’autrice i bamboleggiamenti della protagonista. Teresa Ciabatti ha il coraggio di scrivere di una Teresa Ciabatti viziata, superficiale, parossisticamente egoista, grassa, assatanata di denaro e di sciocchi simboli del benessere, inetta, provinciale, di cattivo gusto. Un’adorabile antieroina in cui nessuno vorrebbe identificarsi, se non altro per paura di specchiarsi in quello che effettivamente è. Nelle sue lezioni di letteratura russa Nabokov scrive che il pessimo lettore è quello che per amare un libro ha bisogno di una conferma delle buone e brave idee che già coltiva. È il lettore “filisteo” (così lo definisce), quello che deve sentirsi virtuoso e magari incompreso, vittima di ingiustizie. “La più amata” non è un libro per filistei, non lo è mai sino all’ultimo capitolo magistrale, che è una chiusura perfetta del romanzo.
Per scrivere questo libro Teresa Ciabatti ha sacrificato sé e anche la propria famiglia, peraltro fatta di fantasmi perché, mi par di capire, sono quasi tutti morti, a parte il fratello e qualche sparuto cugino. Nella famosa intervista della Paris Review a Faulkner, gli chiedono se uno scrittore debba essere privo di scrupoli. “Se uno scrittore ne ha bisogno, non esiterà a rapinare la propria madre. L'”Ode a un’urna greca” vale infinite vecchie signore”, risponde Faulkner. In casa Ciabatti la vecchia signora non è la madre bensì il padre.