Certi romanzi, magari stipati di personaggi, hanno come principale protagonista la cornice narrativa o il luogo in cui si svolgono. Il grande sertão, il mare, un quartiere. Così è col Grand Hotel che dà il titolo al celebre libro di Vicky Baum, vero protagonista della narrazione. Pubblicato in Germania nel 1929, in un periodo in cui quasi ogni singolo anno è memorabile e segnato da drammatici eventi storici, Grand Hotel divenne subito un best seller finché nel 1932 ne fu tratto un film con Greta Garbo, che lo consegnò definitivamente all’immaginazione di varie generazioni di spettatori nonché a molteplici repliche e adattamenti di sceneggiatori, commediografi, scrittori.
Grand Hotel è anzitutto un romanzo corale intriso di decadenza individuale e storica – siamo tra una guerra disastrosa, una grave crisi mondiale e i prodromi del nazismo. Nei cinque giorni della narrazione, la vita d’albergo conferisce stabilità alle esistenze altrimenti slabbrate di un gruppo di persone che vivono in un senso di disfatta personale, illuse o disilluse, prima che tutto ricominci a precipitare. Il Grand Hotel del romanzo, ispirato all’Adlon di Berlino, fissa così in una pausa di astratta opulenza gli splendori e le miserie della Germania di Weimar. Con le sue ferree regole di hotellerie internazionale e la rigida scala gerarchica che determina le competenze e i doveri di chi ci lavora, è come se desse un po’ di stabilità e sollievo ai protagonisti: Otternschlag, ex medico e reduce sfregiato, morfinomane, disilluso. Gaigern, nobile spiantato dal sangue caldo. Kringelein, modesto contabile vittima di una moglie insopportabile da cui fugge, elemento di una piccola miserrima borghesia. La Grusinskaja, celebre danzatrice a fine carriera, cui non resta che innamorarsi concedendosi ciò che per motivi di studio e applicazione si era sempre negata: l’abbandono. Bellissime le pagine sull’immane fatica della costruzione di sé e del proprio mito. Preysing, direttore generale di una fabbrica che va a rotoli. Fiammetta, ragazza di belle speranze e adusa agli espedienti. Inoltre c’è la folla dei comprimari: dal concierge al fattorino, dal mendicante sul marciapiede alla sguattera, il grand hotel è una piazza formicolante che include ogni categoria sociale.
Una nota sulla qualità della scrittura del romanzo: ritenuto per decenni un best seller da ascriversi al filone della narrativa commerciale, corrisponde oggi a quello che intendiamo per letteratura tout court: scrittura piana ma lavorata, ricca di dettagli, con riuscite notazioni di profondità esistenziale. Nessun barocchismo e una trama che, oltre a rappresentare un bel contenitore di destini individuali, è funzionale al momento storico per com’era e per come si sarebbe svolto. Inoltre, non v’è alcuna di quelle componenti consolatorie che dovrebbero piacere al gusto di massa: chi è in miseria vi resta, chi è ricco facilmente perde tutto, il matrimonio è un incubo di angherie e aspirazioni sociali malriposte, l’amore è un inganno, un’accensione temporanea che porta coltivare ingannevoli illusioni, coi buoni sentimenti non si sfugge al proprio destino. Il tono, tuttavia, non è acre né di compiaciuta drammaticità, bensì sospeso, a tratti ironico. Memorabile la chiusura cinematografica in dissolvenza, incentrata sulla meccanica rotatoria della porta del grand hotel: gira, include, esclude… nulla mai cambierà: avanti un altro.
Vicki Baum, Grand Hotel, traduzione di Mario Rubino, Sellerio, € 14