Tra le varie motivazioni che ci spingono a leggere c’è anche il piacere della sgradevolezza, dell’irritazione, del desiderio di tirare un pugno allo scrittore. “È tanto bravo, quanto odioso”. Quante volte lo abbiamo pensato leggendo autori come l’antisemita Celine, il supponente Michel Houellebecq, l’odiatore seriale Thomas Bernhard. Proprio riguardo a quest’ultimo, autore di capolavori come A colpi d’ascia e Il sonnambulo (entrambi Adelphi), il critico Georges Steiner notava: “Il guaio dell’odio è che ha il fiato corto (…). Quando si protrae, diventa una sega monotona e mal affilata che ronza e stride senza fine. L’ossessiva, indiscriminata misantropia di Bernhard, le filippiche contro l’Austria ventiquattrore su ventiquattro minacciano di vanificare i loro stessi scopi”. A molti altri lettori, invece, quelle sprezzanti notazioni accalcate nelle pagine dello scrittore austriaco offrono un sapore proibito, una variante letteraria della Schadenfreude. Leggere, ascoltare, vedere per provare irritazione è un movente nobile, una ricerca della difformità di pensiero che poi è uno dei piaceri più grandi della vita.
Qualche tempo fa ho suggerito la lettura di Autobiografia di Régis Jauffret (Edizioni Clichy) a un amico francese. Mi ha scritto: “La forma è ineccepibile. La scrittura è curatissima, attenta, di impronta paratattica. Il senso del tragico è sempre in agguato. Il contenuto è disturbante molesto, compiutamente fuori dai miei interessi. Il racconto manca di poesia, nel senso di uno sguardo poetico, quel tipo di poesia nascosto negli angoli delle relazioni umane”.
Ognuno di noi cerca qualcosa di diverso nella lettura. Il mio amico probabilmente cerca scrittura e poesia delle relazioni umane, io cerco scrittura ma anche stizza, fastidio, disappunto; e questa Autobiografia te ne procura a man bassa. L’autore racconta in prima persona l’esistenza di un disadattato, un detestabile parassita anche un po’ mitomane che, per sbarcare l’esistenza, si insinua nella vita di donne sole e disarmate e, offrendo un po’ di erezioni ed eiaculazioni, le depreda per poi abbandonarle. Jauffret seleziona in tal modo una strabiliante galleria femminile di disperate che per qualche scopata sono disposte a farsi sfruttare, tradire, derubare. Per esempio, la commessa di un negozio di mobili, ridotta in miseria dal protagonista, si fa convincere a prostituirsi per non lasciarlo a secco. Più lui la schifa, perché lei a quel punto è contaminata e comunque lo ha annoiato, più lei si spinge in un’abiezione autodistruttiva. L’umiliazione cui sottopone le ragazze che seduce, sfrutta, tradisce e poi lascia è una costante immutabile del comportamento del tracotante protagonista. Si vorrebbe strapparlo dalle pagine e avvertire le povere disgraziate che stanno per cadere nelle sue sgrinfie.
Ma allora perché ti è tanto piaciuto questo romanzo, direte voi? Perché è scritto benissimo, perché invidiavo la costruzione delle frasi e la selezione dei dettagli, e anche perché il protagonista mi fa schifo e lo odio e mi chiedo per quale propria perversione lo scrittore abbia scelto di raccontare la storia di uno così.
Torniamo dunque al tema del ruolo dell’odiosità nella narrativa. Nel suo nuovo romanzo, Sinceramente non tuo (Mondadori), Leonardo Colombati fa dire a un critico letterario quello che con tutta evidenza è invece il pensiero di Colombati stesso, a proposito degli antieroi della letteratura. Pensate a Humbert Humbert, pedofilo disonesto e saccente, a Jay Gatsby, sognatore truffatore, a Madame Bovary, fessacchiotta illusa dalla cattiva letteratura di cui si è nutrita, persino ad Arsenio Lupin, gentiluomo ma soprattutto ladro: “Questa gentaglia a cui fino a ieri veniva dato il costume migliore è stata di nuovo soppiantata dai Buoni. Sarà forse per il pernicioso autobiografismo che ammorba le nostre belle penne, tutti questi ‘io’ fin troppo coincidenti con l’idea di sé che l’Autore vuole offrire sono oneste persone alle prese con una qualche ingiustizia; un marito insensibile e violento, una società ingiusta, dei genitori poco comprensivi, un capo lascivo (…). Vittime dotate di sovrumane capacità d’introspezione, compassione e adattamento, alla fine trionfano per far sì che il romanzo possa essere utilizzato non come dovrebbe (ovvero come uno dei più deliziosi passatempi inutili) ma come un manuale di self help”.
È il grande problema della narrativa dei nostri anni: questo tipo di piacere, il piacere del disaccordo o del fastidio per i contenuti o per le psicologie, ma anche la libertà di simpatizzare sulla carta per stronzi patentati come invece nella vita non succederebbe, viene soffocato dalla necessità del contenuto edificante e non censurabile. Chiaramente, se non puoi offendere nessuno, se per esempio non puoi dare dei “musi gialli” ai giapponesi come fa l’ex burattinaio di Il teatro di Sabbath (Philip Roth, Einaudi), finisce tutto in una letteratura delle buone maniere.
Proprio sulle pagine di Domani, Jonathan Bazzi ha raccontato come la sua esperienza di “autorappresentazione” e di “approccio militante ai temi dell’identità” si sia rivelata antinarrativa. In pratica, per aver attribuito a un personaggio di un racconto il desiderio di essere magro è stato violentemente accusato di comportamento anti body positivity ed è arrivato a sentirsi ostaggio degli umori e delle censure dei social. Gli attivisti di Instagram lo hanno insultato, e forse una parte di quelli che hanno contribuito al suo successo, nell’equivoco di aver a che fare con un militante e non con uno scrittore, smetterà di mettere like ai suoi post (ma quelli dei like sono poi gli stessi che comprano i libri? È il dubbio di ogni scrittore). Tuttavia, Bazzi non si sente di sottoscrivere il Walter Siti di Contro l’impegno (Rizzoli) e continua a ritenere che la letteratura possa o forse debba avere anche uno scopo, un’utilità che non sia solo intrattenimento ma anche pedagogia, insomma il cosiddetto “lanciare un messaggio”. Sempre a questo proposito, sulle pagine di Domani ho letto un interessante intervento di Fabrizio Sinisi. “Scuola di nudo, il primo romanzo di Walter Siti – nonché il primo grande romanzo autofinzionale della nostra letteratura – fu, alla sua uscita, un mezzo terremoto: la voluta e provocatoria non chiarezza tra autore e personaggio, tra fatti accaduti e fatti inventati, mandò molti in confusione. Oggi, a quasi trent’anni di distanza da quel libro, l’autofiction è un dispositivo letterario ormai consueto (…). L’autofiction è oggi spesso il territorio della confessione e della memoria; il suo racconto è inteso come condivisione, messa in comune delle proprie debolezze, dei propri dolori, dei propri traumi; il tentativo autoanalitico di rendere trasparenti i propri meccanismi. Ma è scomparso il pericolo (…). E che l’autoficition abbia stipulato con la cultura dei social network un accordo che la lega agli stessi vizi di fondo: egocentrismo, narcisismo, continua proiezione di un’immagine di sé; autocommiserazione (e conseguente autobenedizione), ansia di condivisione, vertigine dello specchio, confusione tra sincerità e verità”. Nell’indimentibabile Effetto notte, film di François Truffaut, Alphonse, cioè Jean-Pierre Léaud, sbotta: “E poi, se uno ha avuto un’infanzia difficile, non deve mica farla pagare a tutti”. Sarà una battuta, ma è proprio quello che spesso ci viene da pensare quando, a differenza di quanto fece il grandissimo Giuseppe Berto con Il male oscuro (Neri Pozza), ogni infanzia disfunzionale viene raccontata con l’idea che possa ispirare i lettori, educarli, aiutarli a risolvere i propri problemi di relazione col mondo. Il molto autobiografico protagonista del romanzo di Berto ci faceva invece identificare sfoggiando le proprie inettitudini e la tremenda famiglia d’origine, senza alcuna ansia di denuncia. Il suo obiettivo, piuttosto, era quello di imbastire un romanzo che raccontasse una miscela di verità e ingiustizie, di manie e idiosincrasie, di prefantozziane debolezze e manchevolezze. Il contrario del romanzo self-building che implica una liberatoria presa di coscienza. E se non è l’autore a censurarsi, ora ci si mettono i lettori che stravolgono il senso di un’opera letteraria. Anziché una libera narrazione, il romanzo diviene strumento per forgiare la società.
Il rischio che non vogliamo correre è che si faccia strada l’idea di una letteratura virtuosa, tipo quei libriccini con le vite dei santi e dei martiri di cui ridevamo con sufficienza quando qualche suora cercava di metterceli tra le mani, per poi finire, ormai adulti a dover subire la versione attualizzata di una narrativa che dev’essere scritta per passare il vaglio dei guardiani, tipo gli studenti delle università inglesi che contestano “i potenziali effetti psicologici dell’opera” censurando a man bassa da Shakespeare ad Agatha Christie.
Dall’autofiction eversiva di Walter Siti all’autofiction che sembra un manuale di self building passa l’idea narcisistica e forse ingenua che uno scrittore con la propria storia possa aiutare gli altri a scacciare i propri fantasmi.
Ebbene, se leggete Autobiografia di Régis Jauffret, soprattutto se siete donne (di nascita, di percezione, di transizione) vi verrà voglia di prendere a ceffoni l’autore, che scrive in prima persona. Tuttavia, questo fetentone di protagonista, parassitario, violento, innamorato del suo cazzo, convinto che le donne siano lì ad aspettarlo e di poterle ammansire e depredare solo perché le scopa, questo vigliacco traditore buono a nulla, lo detesterete talmente da finire per amarne l’alter ego, ossia l’autore. Ma come gli è venuto in mente di raccontare le gesta di un simile farabutto? Di fatto, l’inetto protagonista ricorda un altro strepitoso personaggio letterario: lo studente che un mattino, di botto, smette di studiare e assumersi responsabilità, il protagonista solitario e senza nome di Un uomo che dorme di Georges Perec (Quodlibet).
Un ragazzo qualsiasi che abita in una chambre de bonne sui tetti di Parigi e il giorno in cui deve dare un esame si sveglia accanto al catino dove ha messo a mollo i calzini sporchi e s’inceppa, smette di essere quello di prima e va alla deriva, lentamente, metodicamente. Cammina per Parigi e compila elenchi mentali di tipi umani di cui vede unicamente il lato mostruoso, ripugnante. “Li segui, li spii, li odi: mostri rintanati nelle loro stanze di servizio sotto i tetti, mostri in pantofole che strascicano i piedi vicino a putridi mercati, mostri con occhi glauchi da lampreda, mostri dai gesti meccanici, mostri farneticanti”. E ancora: “Gli passi accanto, li accompagni, ti fai strada tra di loro: i sonnambuli, i bruti, i vecchi, gli idioti, i sordomuti col berretto tirato sugli occhi, gli ubriaconi, i rimbambiti che si raschiano la gola e cercano di trattenere il tremolio intermittente delle guance, delle palpebre; i provinciali persi nella grande città, le vedove, i furbastri, i vecchi decrepiti, i ficcanaso”. Altro che cautele letterarie per non offendere minoranze e maggioranze: “Ti vengono incontro, a piccoli passi, con quei loro sorrisi da buoni, i loro volantini, i loro giornali, le loro bandiere, i miserabili combattenti delle grandi cause imbecilli, le maschere ossute che partono in guerra contro la poliomelite, il cancro, i tuguri, la miseria, l’emiplegia e la cecità (…). Le carnagioni giallognole, i colletti lisi, quelli che ti farfugliano la loro vita, le loro prigioni, i loro ricoveri, i loro viaggi di fantasia, i loro ospedali (…). I mostri con famiglia numerosa, con i loro bambini mostri, i loro cani mostri; le migliaia di mostri bloccati ai semafori; le stridule femmine mostro; i mostri coi baffi, col panciotto, con le bretelle, i turisti mostri rovesciati a mucchi davanti agli orridi monumenti, i mostri della domenica, la folla mostruosa”. Il grigiore di questo studente fallito, perennemente incavolato e misantropo è quasi lo specchio del protagonista di Autobiografia, misogino e altrettanto autodistruttivo, carnefice e vittima di una sua particolare forma di cupio dissolvi. Come Perec, Jauffret sostituisce alle descrizioni psicologiche una somma di fatti e descrizioni. La scrittura è tersa, senza fronzoli, laconica eppure non priva di tensione lirica: “Aveva una bella casa con due camere vuote occupate fino all’anno prima dalle sue due bambine assassinate da un pazzo mentre andavano a scuola. Non sapevo esattamente cosa dirle, le feci notare che adesso non rischiavano più di ammalarsi. Lei sorrise, entrammo in salotto. Mi disse ho caldo, mi spoglio. I mobili erano belli, c’erano delle tele alle pareti. Pensai che mi sarei sistemato lì per qualche anno. Avrei anche potuto decidere di morirci, bastava aprire la vetrata per schiantarsi venticinque piani più in basso. Mi chiese se svestita la trovavo bella, le dissi che il seno era un po’ cadente. Però l’amavo, l’avrei sopportata anche se fosse stata coperta di psoriasi o se fosse stata amputata. Le feci vedere il mio sesso duro per provarle la forza del mio sentimento. Le chiesi se voleva delle carezze, o se preferiva che la penetrassi immediatamente davanti, dietro o in bocca. Mi disse che era infatuata, che la sua vulva era bagnata”. Poveretta, si vorrebbe avvisarla, siamo già all’ennesima illusa autolesionista che verrà sfruttata dal protagonista: “Si sedette su un divano per aprire meglio le cosce ed esibirsi. Le labbra dondolavano come ballerine e appena sopra il clitoride si sollevava come un telescopio. Mi sembrava che tutto quel coso fosse pronto a staccarsi da lei e posarsi su di me come una rana che salta. Immaginavo le labbra che si aprivano abbastanza da circondarmi la testa e scendere pian piano fino a stringermi il collo come la corda di una forca, a meno che non fossi soffocato dalla vagina che mi si infilava nella trachea alla ricerca di un introvabile pene interiore”. Be’, insomma. Inevitabile pensare a Jauffret e interrogarsi sul suo livello di identificazione col protagonista e sulla sua necessità di creare un inventario di disgraziate che bramano sesso a compensazione del proprio isolamento, del vuoto che le assedia.
Per lo studente fallito di Un uomo che dorme avevamo provato un’iniziale simpatia. La sua cesura netta e improvvisa di una vita fatta di dover essere e dover fare aveva delle ragioni che, lì per lì, eravamo pronti a sposare, identificandoci. Anche noi lettori abbiamo vite incastrate nel dover essere e dover fare, ma presto Perec ci porta a odiare lo studente narcisista che passa il tempo senza mai parlare con nessuno, disprezzando le persone che incrocia lungo i viali di Parigi, nei locali pubblici, o che immagina rintanate in casa. Invece, per lo scopatore parimenti narcisista di Jauffret non proviamo un solo secondo di comprensione e identificazione, eppure ci conquista definitivamente la scrittura rapida, efferata, tersa e opposta al buio delle esistenze descritte e all’accumulo di scene di un sesso ferale e antierotico. Laddove i buoni sentimenti, le disgrazie che ci dovrebbero far crescere edificando la nostra coscienza civile li accantoniamo e dimentichiamo, questi ritratti di disgraziati senza speranza e senza un perché, ognuno col proprio male oscuro insanabile, rimarranno indimenticabili nella nostra memoria affollata di evanescenti frattaglie.