Nero Wolfe non è un primogenito. Quando prende vita, nel 1934, i suoi fratellastri sono già impegnati a smascherare i criminali che ostacolano l’esistenza operosa dei newyorkesi. Philo Vance e Van Dine sono sulla piazza da otto anni; Ellery Queen e il padre, ispettore capo della Omicidi di New York, da cinque. Il pubblico di lettori di detective story, che sino agli anni Venti si è nutrito di intrecci ambientati in Europa e sciolti da investigatori europei (Sherlock Holmes, Padre Brown, Poirot e Miss Marple), scopre l’America cominciando ad assaggiarla dalla East Coast. Pochi anni più tardi, i lettori della cosiddetta “hard boiled school” esploreranno anche la West Coast, in compagnia di Sam Spade, Philip Marlowe e Perry Mason. Tra gli anni Trenta e Quaranta, nel periodo d’oro dello “studio system” hollywoodiano, diversi scrittori e sceneggiatori cominceranno ad ambientare le proprie storie a Los Angeles e San Francisco.
Ma torniamo a Philo, Ellery e Nero: il loro è ancora un corpo a corpo figurato, una competizione intellettuale – senza botte né schizzi di sangue – con un assassino solitario di estrazione borghese. Non siamo più nei saloni di castelli, sull’Orient Express o nelle graziose cittadine di campagna europee, ma le detective story non mettono ancora in scena quartieri metropolitani ad alto tasso criminale, con musi gialli o negri e malavite di gruppo etnico, gli italiani, gli irlandesi, i cinesi, i latinos. Con Philo Vance, Ellery Queen e Nero Wolfe perlustriamo Manhattan e dintorni residenziali, a partire da ville con giardinieri, appartamenti al trentesimo piano con camerieri che servono drink, segretarie che prendono appunti, campi da golf e caddies, impiegati zelanti e carrieristi, figli avidi, ragazze della buona società, e piccolo-borghesi rigorosamente di razza bianca, sull’orlo della miseria e perciò moralmente ricattabili. Niente gang, ma nemmeno menti malate e serial killer e traffici di droga. Solo deviati solitari che uccidono per continuare a nascondere un segreto (mai a sfondo sessuale) e soprattutto per impossessarsi dell’unico vero movente che corrompa gli animi: il denaro.
I gialli dei primi anni Trenta sono un sorta di traslazione del romanzo cavalleresco: rendere giustizia a un sospettato innocente è importante quanto scovare l’omicida. Poi, una volta che Philo Vance, Ellery Queen e Nero Wolfe hanno risolto un caso, le tipiche vittime di questi gialli – i ricchi, le ragazze, e i testimoni – possono tornare a star tranquille, almeno per un po’.
Continuiamo con le analogie fra i tre fratellastri della scena newyorchese: sono tutti investigatori deduttivi. Sciolgono un rompicapo, e, più che col criminale, lottano col lettore: chi, per primo, riuscirà a individuare il colpevole? Entrambi, lettore e detective, hanno una passione combinatoria, quasi enigmistica, per lo scioglimento dell’intreccio.
Infine, i tre investigatori sono persone beneducate e, se non ricche, quantomeno benestanti. Ai tempi di Philo, Ellery e Nero il detective privato non è ancora un fallito, un criminale al contrario. Siamo ben lontani da quello che successe a partire dai noir di Dashiel Hammet, secondo la celebre definizione di Raymond Chandler: “Ha tolto il delitto dal vaso veneziano e l’ha gettato nei vicoli”. È stato Hammet, che amava i luoghi sordidi, a restituire agli omicidi sangue e lordura, e a renderli cinematografici – ben diversi dal gioco intellettuale da salotto cui erano abituati i lettori.
Dopo aver inquadrato i nostri tre prodi investigatori newyorchesi, cerchiamo di capire perché Nero Wolfe, la creatura di Rex Stout, è nettamente il preferito dei lettori, quello che ha retto meglio il passare degli anni, al punto che la sua identità viene ancora strapazzata per adattarla a serie televisive di pessima fattura, ridicole persino, come quella trasmessa recentemente in televisione con Francesco Pannofino nel ruolo già interpretato con ben altra allure recitativa e fisica da Tino Buazzelli. Nero Wolfe piace anzitutto perché vince partendo da un handicap: è grasso, impedito nei movimenti, completamente statico. È dunque un uomo d’azione puramente mentale. Tuttavia la sua grassezza non ripugna e non fa ridere, non ha nulla di volgare, di unto, di grottesco: Nero Wolfe è elegante e autorevole nella smisuratezza dei suoi 150 chili, come Winston Churchill, Giovanni Spadolini, Francis Ford Coppola. Nei profili di Nero Wolfe, si legge che è misogino. A me non pare: in realtà si limita a lasciare in pace le donne e, nell’ordine dei piaceri della vita, preferisce nettamente birra, cibo e la “bellezza viziata e arrogante” delle orchidee. Rex Stout dimostra senso estetico: un uomo di simile stazza che corteggiasse le donne sembrerebbe patetico, dunque inelegante. Un uomo grasso gourmet fa simpatia. Un uomo grasso alle prese con i fiori più delicati, sottili, fragili, misteriosi che ci siano, esprime invece eleganza intellettuale e persino sentimentale, visto che le orchidee sono esseri viventi di genere femminile.
Oltretutto la passione per le donne non è assente dai romanzi di Stout: è delegata (o sublimata) all’assistente di Wolfe e io narrante, l’agile Archie Goodwin. Più che di misoginia, si tratta dunque di snobismo. Alla forza lavoro, ai sottoposti, si delega ben volentieri la fatica di uscire, pedinare, interrogare, corteggiare, sedurre. Chiuso felicemente nella sua brownstone di Manhattan, Wolfe pensa più o meno quello che pensava Pascal, e con lui molti di noi: “Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: non saper restare tranquilli in una camera”.
In casa, da un piano all’altro (con l’ascensore), si può avere una vita perfettamente piena, spostandosi tra il solarium – regno delle orchidee -, la camera da letto, lo studio, la sala da pranzo, facendo di tanto in tanto delle rapide visite – dei blitz – in cucina. No, non è misogino Nero Wolfe. È solo pratico: provate a immaginare il caos che sortirebbe dall’immissione di una figura femminile nel suo regno di ordine, rigore, abitudini e quiete. Abita con un giardiniere, Theodore Horstmann, un cuoco-maggiordomo, Fritz Brenner, e un investigatore-segretario, Archie Goodwin. Di tanto in tanto si avvale dell’aiuto di altri tre “segugi”, che però non vivono nel palazzetto di arenaria della 35ma west. L’universo di Nero Wolfe è improntato alla stessa logica dei conventi: mai mischiare i sessi.
Analizzando gli oggetti apparentemente insignificanti trovati da Archie nel cassetto di un morto, Wolfe sentenzia: “Tutto nella vita deve avere uno scopo, tranne la coltura delle orchideacee”. Ha ragione, e lo invidiamo. Ognuno di noi vorrebbe dipendere da cose che non hanno scopo e invece, proprio come Wolfe, si trova costretto a lavorare per denaro e a porsi degli obiettivi. L’obiettivo di Wolfe è esattamente lo stesso degli assassini che smaschera: ha bisogno di soldi per alimentare la sua smania collezionista e gli agi cui si è abituato. Di fatto, la sua è una figura pienamente moderna, molto più vicina a quella dei detective dei noir, a Sam Spade, che non ai suoi fratellastri del giallo classico di matrice positivista. Esaminiamone i moventi: Ellery Queen è laureato a Harvard ed è un bravo figliolo che aiuta il padre poliziotto a risolvere i casi più intricati: un insieme di valori famigliari e di eccezionali capacità deduttive che, terminati gli studi, vengono tenute allenate con una sorta di salubre ginnastica della mente. Philo Vance invece è uno snob: la cosa più vicina all’aristocrazia che si possa concepire sul suolo americano; detesta gli arricchiti, i soldi facili, la volgarità del cattivo gusto, i borghesi saziati dal denaro ma incolti, privi di eleganza e di passione per le arti. Risolve i casi di omicidio per ripulire il mondo dalla volgarità delle ricchezze improvvise e del denaro finito in mano a persone sbagliate. Maigret, che è contemporaneo dei tre newyorchesi, è un commissario di polizia e in lui ci sono due tipi di lealtà: fare bene il lavoro per cui si riceve un salario, e rendere giustizia a chi viene assassinato. Maigret è dunque posseduto da un senso morale profondo e radicato.
Torniamo a Nero Wolfe: certamente crede a quello che afferma, quando dichiara il suo disinteresse per la giustizia in sé, e la sua assai moderna immoralità che lo spinge a smascherare criminali solo in cambio di denaro – di molto denaro. Tuttavia noi lettori, e qui sta la bravura di Rex Stout, siamo certi che Wolfe lavorerebbe anche gratis, se non per amor di giustizia almeno per gusto dell’esibizione della propria straordinaria capacità analitica e deduttiva. Difatti, nei momenti in cui il suo intuito pare inceppato e Wolfe gira a vuoto, si deprime e si butta sul cibo o rimane “a letto ad attendere la disintegrazione”. Sono momenti duri per Archie: “Magari tutto sembrava filare liscio e io ero convinto che fossimo sul punto di impacchettare il caso e recapitarlo con pagamento alla consegna, quando per nessuna ragione plausibile lui perdeva interesse alla cosa. Si estraniava e non c’era nulla da fare”. Wolfe alterna due modalità di depressione: “O si metteva a letto e ci restava, nutrendosi di pane e zuppe di cipolle, rifiutando di vedere chiunque all’infuori di me e con il divieto assoluto di fargli parola di qualsiasi cosa mi passasse per la mente; oppure si sedeva in cucina spiegando a Fritz come preparare certi piatti e poi mangiandoli al mio tavolino. Nel secondo modo, una volta si era mangiato un’intera pecora nel giro di due giorni, le diverse parti cucinate in venti modi diversi. In quelle occasioni finivo di solito con la lingua penzoloni a furia di correre attraverso tutta la città, dalla Battery al Bronx Park, cercando di scovare qualche erba, o radice, o strano liquore che servisse a quei due per confezionare il piatto successivo. L’unica volta che piantai in asso Wolfe fu quando mi spedì sul molo di Brooklyn dove era ormeggiata una nave da carico cinese, per cercare di acquistare dal capitano certe radici orientali”. Chi di noi non conosce quel sintomo depressivo tipico che è l’organizzarsi festini epicurei solitari, e far finta che il mondo – quello con cui abbiamo assunto degli impegni e che legittimamente aspetta il nostro contributo – non sia mai esistito?
La passione per il cibo; la ferma decisione di condurre una vita ordinata, con orari precisi e regole insindacabili; l’intelligenza fatta fruttare nella staticità più assoluta; l’amore per le orchidee e per i cataloghi di fiori; la grassezza elegante; la brownstone a Manhattan, accessoriata di cuoco, giardiniere, segretario investigatore… Raramente dalla penna di uno scrittore è uscito un personaggio seriale così dotato di caratteri eterni, accattivanti, persino da invidiare – stazza inclusa. “Conosco la tecnica dell’eccentricità; sarebbe inutile per un uomo faticare allo scopo di costruirsi una reputazione eccentrica quando poi fosse pronto a fare ritorno a un comportamento normale alla minima provocazione. Ora vada. Aria”, dice Wolfe a Goodwin che vorrebbe farlo alzare dal letto anzitempo, perché al piano di sotto c’è una visita molto importante, decisiva. Questa fermezza di principi volta al mantenimento del proprio piacere e dei propri agi è il tocco caratteriale che rende Wolfe un personaggio riuscito, al di là dell’originalità dei suoi piaceri e dei vizi.
Tutto questo però non sarebbe bastato a rendere senza tempo le storie di Nero Wolfe, se Rex Stout non l’avesse reso con una scrittura limpida, pratica, senza quegli svolazzi, coloriture e gergalità che più tardi avrebbero infestato gran parte dei gialli hard boiled, la cui lingua oggi suona irrimediabilmente datata.