Se c’è un luogo saturo di magnificenti echi letterari, quello è Venezia. Le parole degli scrittori unite alle arti iconografiche l’hanno resa un simbolo che risiede nell’immaginario di milioni di persone, anche di quelle che non l’hanno mai visitata. Negli ultimi due secoli, dentro questa immagine moltiplicata all’infinito ha preso piede una Stimmung gotica e decadente che va dalla Venezia “teatro del tempo perduto” di John Ruskin a quella simbolizzata dal senso della fine del “vecchio ganimede” Gustav von Ascenbach, protagonista di La morte a Venezia. Ancor oggi, giunti nell’età della comunicazione infestante, è tutto un allarme, come se Venezia si accingesse a divenire una necropoli trasformata in esoso parco giochi, pronto a soggiacere all’innalzamento dei mari. E allora festival, carnevali, biennali, navi da crociera mentre i residenti diminuiscono, e si preconizza che presto nessuno vi abiterà più. Se invece entrate nelle pagine di Un invito a Venezia di Servane Giol, ecco apparire fiotti di vita e di innovazione, pur nel culto di impareggiabili tradizioni. Viva Venezia viva, viene da dire sfogliando e leggendo questo libro sontuoso e stupefacente.
Non solo la città risulta unica per tutti i motivi che conosciamo e per altri di cui andiamo alla scoperta tra le sezioni del volume, ma pure ci si chiede quale altra città al mondo avrebbe offerto un simile materiale di storia del gusto e della bellezza, di diffusa e perdurante qualità dell’artigianato ai tempi dell’industria globalizzata, di ricambio delle classi sociali che ne hanno costruito l’allure. In Gli ultimi Gattopardi, splendida raccolta fotografica di Shoba Battaglia sugli aristocratici palermitani e sulle loro dimore (che le procurò il World Press Photo), si respira l’aria di un campione sociologico aristocratico locale e ormai laterale alle cose del mondo. Invece, nei materiali d’archivio di Un invito a Venezia, nelle quasi trecento fotografie di Mattia Aquila, nelle descrizioni e notazioni di Servaine Giol corre una continuità vibrante, le facce vecchie si sommano alle nuove, i palazzi agli appartamenti, e così le bellezze e le tradizioni si rinnovano. L’autrice, che vive a Venezia da vent’anni, spiega che il suo intento era “dar voce ai veneziani, a quelli che ci abitano, non a chi ci è passato per sei mesi. E far vedere dove vivono i veneziani, perché curiosamente i tanti libri su Venezia sono fatti da persone che non ci abitano e illustrano sempre gli stessi luoghi: quelli che si affittano, quelli disabitati, i musei. E volevo capire per quale magia i veneziani fossero rimasti così nascosti dalla città più fotografata, più visitata, più esposta del mondo”. La ragione, spiega l’autrice, è che la cultura veneziana non è quella del mettersi in mostra, in una città che è già di per sé un teatro, ma è una cultura del sottrarsi, anzitutto dall’invadenza del turismo. “Il mio libro però non è sugli aristocratici nei loro palazzi, ma un libro sul talento degli artigiani e di chi fa arte. Venezia è in assoluto la città del talento, è come se conservasse il monopolio dello straordinario e non a caso vi vengono a vivere, e non di passaggio, così tanti artisti”.
Un invito a Venezia è un sontuoso catalogo di perduranti lussi artigianali, di mode passate e presenti (dalla colorazione dei capelli femminili alle scarpe, dagli specchi alle apparecchiature, dai gioielli alle musiche…) con un triplo valore: quello di fonte di ispirazione per noi lettori, di conoscenza storica e aneddotica, di testimonianza della presente vivacità. A differenza di altri libri che documentano inarrivabili usi e costumi dell’upper class mondiale, proprio come dice il titolo è anche una guida a una Venezia possibile, un invito a viverla secondo un percorso inedito e inconsueto.