Arriva un giorno in cui cominci a chiederti se le piante non siano persone. Sei certa che abbiano una personalità, gliela leggi in volto, cioè tra le fronde, nello sviluppo del tronco, nella globalità delle foglie. Però, temi che oltre a un carattere specifico, che le fa essere fico d’India, olivo, palma, quercia, queste piante abbiano anche una coscienza e provino dolore. Ti preoccupi per il ramo che spezzi, per l’incisione sulla corteccia, per il segno lasciato da un fil di ferro stretto sul tronco, che ormai lo ha inglobato crescendogli intorno.
Gli adulti – di solito sei ancora bambina quando ti prende per la prima volta questa preoccupazione -, scrollano le spalle e dicono: “Mannò, cosa credi, un albero non prova dolore, se lo tagli è come quando ti tagliano i capelli, si sviluppa, ricresce. Non preoccuparti, è un vegetale”. Questa cosa dei vegetali che non soffrono ti lascerà perplessa tutta la vita, ma la prenderai per vera, così come fai con il teorema di Pitagora e con tante altre teorie che altri hanno elaborato per spiegare il mondo.
Tuttavia, nonostante le rassicurazioni sull’incapacità di provare dolore specifica del mondo vegetale, continuerai a provare rispetto per queste persone extraumane, e vederne una abbattuta, divelta, scardinata dal suolo ti farà sempre sentire un senso di disordine e di inappropriatezza. Al punto che quando ti chiedi cosa fare di una piccola pianta che ha perso tutte le foglie, e che sarebbe tempo di buttare dopo che è stata a lungo nel tuo appartamento e lo ha reso aggraziato, dopo che è stata amichevole e servizievole dando una personalità alla stanza dove l’avevi ospitata, improvvisamente, con un tronco smorto e sgraziato tra le mani, torna la domanda di quando eri bambina: “E se fosse una persona? Se soffrisse perché la metto nella spazzatura, la chiudo in un sacco, la butto e smetto di occuparmene, di darle da bere, di controllare che abbia luce?”.
Un giorno decidi che la scienza, quella per cui un albero divelto, sradicato, non ha diritti perché “non è in grado di ri-conoscersi”, non spiega sufficientemente la complessità della vita. “I talk to the trees”, diceva una canzone, “Parlo agli alberi”: e infatti nella tua vita non si contano le conversazioni con piante che rumoreggiavano nel vento, nella pioggia, nella nebbia. Ti sembrava di parlargli. Esprimevano un senso, e non era un dialogo a senso unico. Anzi, sembrava che quelle piante dialogassero anche tra di loro, e si scambiassero esperienze. Ogni albero aveva una propria personalità e la esprimeva: c’era quello malaticcio, quello cresciuto al sole, quello storto, deforme, ma fantastico, sorprendente… tutto proprio come con le persone. Alcuni esseri umani del resto sembrano alberi, c’è la ragazza con le gambe che sembrano rami di betulla, l’uomo accogliente come un cedro del Libano, per non dire della tua amica slanciata come un cipresso o di quel tipo affranto, che si aggira come certi salici piangenti che spiovono sulla superficie. Ma sono loro, gli esseri umani, ad assomigliare a una pianta, o viceversa le piante che ci assomigliano, hanno una personalità che è giusto rispettare? I poeti, i creatori di miti, i pittori, gli scultori, i fotografi, persino gli autori di canzoni non hanno mai avuto dubbi. Gli alberi parlano, hanno un linguaggio, socializzano tra di loro, al punto che dove c’è una pianta ne nasce un’altra, e poi un’altra ancora e dopo pochi anni se le lasci fare c’è un bosco. Del resto, cosa c’è di più affascinante della vita vegetale che nasce sulle rovine, sulle macerie, sui luoghi abbandonati e diventa foresta? Gli alberi fotografati da Irene Kung sono esseri che comunicano, che hanno vissuto storie complesse, e per diventare come sono in queste immagini, ne hanno passate tante, proprio come un essere umano di una certa età. Dal loro tronco, dalle loro foglie, dagli insetti che le popolano e dagli animali che le visitano esce il racconto dei caldi, dei freddi, delle siccità e delle gelate, degli esseri umani che si sono presi cura di loro oppure che hanno cercato di danneggiarle.