“Il cane è la persona più pura di Napoli… Se vedessi come è sporca questa città”. Ma anche: “E di sicuro ti ho già parlato di Posillipo, che è un luogo. In greco significa ‘pausa dal dolore’. Il dolore effettivamente resta un momento sospeso, tanto dolci sono i colori, tanto poco sono selvaggi, tanto bello, bello, è quel luogo dove convivono mare, alberi, montagna. La mia impressione è quasi negativa: ci sono troppe cose belle, sembra che io non abbia tempo o forza, e che io sarei più tranquilla con una sola”. Sono le eterne contraddizioni di Napoli, raccontate da tanta letteratura e anche in questi brani di lettere, scritte nella primavera del ’45 dalla grande autrice brasiliano-ucraina Clarice Lispector, moglie di un diplomatico di stanza a Napoli proprio mentre finiva la guerra. E allora, poiché siamo per l’ottimismo della ragione e del gusto, anziché raccontarvi il versante disastrato della città ci concentriamo su un luogo degno di nota, che ci piacerebbe tanto avesse degli emuli anche in altre città che frequentiamo più spesso, quali Milano e Roma. La stanza del gusto è un ristorante (ma anche “Cheesebar” – di fatto, un’osteria) particolarissimo, estroso nel gusto degli arredi e nello svecchiamento di piatti della tradizione, gestito da uno chef-patron, Mario Avallone, comunicativo e di innegabile talento. Tra l’altro il locale si trova in posizione strategica, nel centro storico vicino al Museo Archeologico, alla Cappella Sansevero, all’università e alla Basilica di San Lorenzo Maggiore, in un viale alberato con tavolini all’aperto dove, complice il clima mite di Napoli, si mangiava anche l’altra sera. Il locale ha anche una cantina di stagionamento, dove Mario Avallone ha stipato prodotti dell’eccellenza campana di cui si può fare scorta: taralli e mostaccioli della casa, cacioricotta di capra, fagioli a formella, soppressata di Avellino, noci e nocino di Sorrento, confettura di mele annurche – solo per citare alcuni dei prodotti in vendita. Ma torniamo al ristorante, arredato dal patron con talento da scenografo: le pareti a bolle colorate, il lampadario da Alice nel paese delle meraviglie, i tavoli e le sedie “creative” su disegno di Avallone, i sottopiatti di ceramica di un’artista svizzera che vanno man mano a sostituire le preziose tovaglie in triplo lino spagnolo “rovinate dai criminali delle lavanderie”, la lavagna con la scritta “Coraggio, il meglio è passato”, i caciocavalli che penzolano dal soffitto come pianeti di una costellazione gastronomica. E il menu, di cui si vorrebbe assaggiare un po’ di tutto, a partire dal pane, squisito (pane che secondo me è la base di ogni buon pasto, e quando è cattivo non c’è miracolo gastronomico che tenga: nel locale che l’ha messo in tavola non ci voglio più mettere piede). Baccalà affumicato in casa e melanzane; zuppa antica con fagioli, castagne e fichi secchi; triglie allardate col guanciale, puré di patate al limone e mele annurche fritte; zuppa di mandorle e zafferano con polpettine di ricotta; polipo e pomodori arrosto; talli (sono spaghetti artigianali a spirale) e burrata; cremolata di fichi d’India… tutti piatti che mantengono il senso di aspettativa che creano.