A tutti i cultori del periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta – da chi a quei tempi se la spassava a chi invece nemmeno c’era, e li scopre adesso sfogliando riviste di moda e design -, consiglio d’andare in pellegrinaggio a Modena. Che c’entra la città dell’Accademia Militare, dell’aceto balsamico, della Ferrari e di Pavarotti, che c’entra questa città ducale tutta portici e umidità, con la pulizia modernista e vagamente spaziale delle linee di quegli anni?
Provate a entrare da Oreste, storico locale della città affacciato sulla piazza dell’Accademia: vi sembrerà che uno scenografo maniacale al soldo di un redivivo Luchino Visconti abbia allestito la sala apposta per stupirvi. E’come se qualcuno avesse da poco tolto le lenzuola che coprivano le suppellettili perché non s’impolverassero: vi parrà d’essere arrivati, con quarant’anni di ritardo, in uno di quei ristoranti dove la domenica pranzavano le famiglie benestanti con la domestica in libera uscita. Le donne col filo di perle al collo, i bambini in giacca e pantaloni corti, le bambine col vestito a nido d’ape: tuttavia, in quell’atmosfera compassata di decoro borghese, si mangiava come oggi mangiano solo i meno abbienti: né fisime né diete, primo e secondo e contorno e dolce, senza disdegnare cotenne e cotechini.
Da Oreste ci sono ancora le sedie originali di Giò Ponti, eteree e spigolose, che fanno temere sfracelli se utilizzate per deretani di cantanti d’opera (lì piuttosto assidui); ci sono i caratteristici lampadari di Venini, e la sala è molto ampia, coi tavoli ben distanziati e un grande soppalco a balconata. I condizionatori sono oggetti da modernariato, il tavolo buffet con la bottiglia del ketchup e l’insalata e qualche piatto di salumi evoca i ristoranti d’albergo nelle località termali, il telefono a parete ha un trillo amplificato identico a quello de “La cittadella” in versione Alberto Lupo. E poi una vetrinetta con foto autografate di glorie locali (Mirella Freni, Luciano Pavarotti, Enzo Ferrari), un paio di tavoli con uomini solitari trattati con la famigliarità e i discorsi che si riservano ai clienti assidui, il cameriere apprensivo che se lasci una virgola nel piatto ti chiede “Come mai non l’ha mangiata questa?”, e certe dolcezze di modi, certe chiacchiere del proprietario con una coppia di melomani a un tavolo vicino, che ti fanno dire: “Ma qui siamo in pieno Pupi Avati, fra un po’ mi salta fuori Carlo delle Piane e iniziamo a parlare di memorabili gite scolastiche sull’Appennino”. E il menu? Anche quello si è fermato: sia nella forma (è scritto a macchina, con le sbavature del nastro) sia nei contenuti (a parte un lardo di Colonnata, qui particolarmente stridente, e un pesce spada affumicato rucola e limone). Magari non li sceglierete, ma ci sono piatti ormai scomparsi: scovatemi un ristorante che abbia nella lista quadrucci in brodo con fegatini di pollo, paillard di vitello alla griglia, fegato alla veneziana con cipolla, filetto al pepe verde. Naturalmente chi viene qui volgerà invece sui tortellini in brodo all’antica (cioè lasciati “a riposare” col grana, prima di servirli), le lasagne verdi casalinghe, le regaglie di pollo al burro, lo squisito bollito misto con salsa verde nostrana, l’appetitoso manzo brasato al Sangiovese…
Il proprietario, Guerrino Cantoni è un novantenne ancora arzillo, uno di quelli che ne hanno viste di tutti i colori, dal caratteraccio di Enzo Ferrari al nuovo ricco di Carpi che con i ciccioli sostiene di poter bere solo Châteauneuf du Pape del ‘95. E il figlio Walter è un grande appassionato di lirica, competente e aggiornato nonostante il lavoro lo costringa a saltare le prime e accontentarsi delle matinée.
In ultimo segnaliamo un fenomeno emblematico, che si potrebbe inserire in uno studio socio-storico sulla ristorazione italiana. Sulla piazza affaccia un altro locale: oggi si chiama Morsichino, bruschetteria, pizzetteria e via dicendo. Per alcuni anni il gestore ne aveva fatto un ristorante di tendenza e s’era guadagnato la sua brava stella Michelin. Poi, passata la moda o fatti due conti, ha deciso il cambio di rotta. Nel frattempo, con minor gloria, Guerrino/Oreste teneva duro a forza di zampetti di maiale e maltagliati coi fagioli. E adesso è ancora lì, come quarant’anni fa, con le stesse lampade, il telefono che sembra suonare dall’aldilà, i tortellini riposati e il carrello dei bolliti; mentre, al lato opposto della piazza, dove prima parcheggiavano Mercedes e Bmw ora c’è un groviglio di motorini. Morale: sui tempi brevi gli adolescenti rendono più dei ricchi cultori di stelle Michelin; ma sui tempi lunghi, almeno in Italia, ad averla vinta è ancora la tradizione.
Nell’uscire il signor Walter ti rincorre, per consegnarti un’agendina rossa in regalo. Teme che tu non ne capisca la praticità, e te la spiega. Poi, già che ci sei, fai due chiacchiere e scopri la passione con cui si procura gli zamponi da tenere a bagno tutta la notte prima di cuocerli, ti racconta delle donne che hanno il dono di fare la pasta in pochissimi minuti perché “hanno la tea”, cioè le mani calde, ricorda quando da piccolo si svegliava con l’odore dello gnocco fritto (sfoglia cresciuta, fritta nello strutto), che la madre gli serviva ogni mattina prima d’andare a scuola. Tempi in cui c’era il tempo di cucinare persino per la colazione, e non si temeva di consegnare alla società bambini col colesterolo in disordine. Conto sui 40 euro.